Nella devastazione del secondo dopoguerra, la letteratura illustrò, per lo più, il crollo degli ideali. Nel 1953, caso emblematico, andò in scena Aspettando Godot di Beckett, che inquadra la vita umana come assurda attesa di un Dio che non vuole o non può salvare. Nel 1954 uscirono due romanzi, diversissimi tra loro, dal titolo paradossalmente simile: il Signore delle mosche di William Golding e il primo volume del Signore degli anelli. Titoli che, pur da prospettive opposte, indicano la stessa entità, vale a dire il signore del male. In Golding, compatibilmente con il pessimismo dell’epoca, tale “entità” domina l’animo umano, compreso quello dei protagonisti bambini che, lasciati a se stessi, regrediscono a uno stato sub-umano.
In un simile contesto, come poté quell’escapista di Tolkien pensare a un’epica fantastica piena di speranza, in quel suo strano romanzo che non era per ragazzi, non era per adulti? Come poté, in quel mondo devastato dalla guerra e dai massacri di innocenti? Ben lo capì la critica, soprattutto italiana, che lo accolse quasi unanime con una levata di scudi.
Ma Tolkien non era uno che si rifugiava nel sogno per paura della realtà. Lungimirante come sempre, da molti anni aveva fornito le proprie ragioni in proposito. Parliamo del grande saggio “sulla fiaba” (On Fairy Stories), composto proprio a cavallo della guerra, tra il 1938 (poco dopo l’uscita dello Hobbit) e il 1947.
Non abbiamo parole per descriverlo. Anche nel senso che la lingua italiana manca del termine adeguato. La parola “Fiaba”, infatti, ci dice l’autore, non corrisponde affatto a “Fairy Story”. Né la versione francese, “conte de Fées”, è più soddisfacente. Perché, “Fairy”, o, per meglio dire, “Faerie”, non è una categoria di personaggi fittizi (le cosiddette “fate”): è un intero mondo. Per Tolkien, la Terra di Mezzo con tutti i suoi abitanti. È un mondo a parte, creato dall’uomo narrante.
È proprio questo uno dei punti fondamentali del saggio, che parla, oltre che di fiabe, di molto altro: letteratura, filologia, antropologia, e anche del bisogno ultimo dell’uomo. Perché mai l’uomo è felice solo quando crea, né riesce a farne a meno? Perché, afferma l’autore, creare è ciò che ci avvicina a Dio: “Noi creiamo, nella nostra modalità derivativa, perché siamo creati. E non solo creati, ma creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore”. Che gli piaccia o no, dunque, l’uomo è un “sub-creatore”.
Non è esatto, egli continua, affermare (insieme a Coleridge) che la nostra mente rende “reale” un mondo “immaginario” operando una “volontaria sospensione di incredulità”. Ciò che accade veramente, ci dice Tolkien, è che “l’autore di una storia è un bravo sub-creatore. Costruisce un mondo secondario in cui fa entrare la vostra mente. Al suo interno, ciò che racconta è “vero”. Quando l’arte viene applicata con successo ai frutti dell’immaginazione, il risultato è il “Fantasy”. Così Tolkien sancì la nascita di un nuovo genere narrativo.
Ma torniamo alla fuga dalla realtà (Escape). Essa non va confusa con il disimpegno o, peggio con la diserzione e il tradimento. “Perché mai si dovrebbe mettere in ridicolo uno che, ritrovandosi in prigione, cerchi di uscirne e di tornare a casa?”. È proprio chi ama la vita a cercare un modo per redimerla, per non cadere nel triste “realismo” senza speranza che pervade la contemporaneità. Dire “questa triste realtà è l’unica e inevitabile realtà che esista” equivale a consegnare il proprio mondo al nemico. Pare una frecciata, da parte di Tolkien, al nostro nascente neorealismo.
Così, molte cose a cui oggi si dà enorme importanza, perché pare che riflettano la “realtà”, sono invece transitorie come un soffio di vento (col senno di poi, viene da pensare alla realissima, tangibilissima Unione Sovietica). Gli alberi dei racconti fantastici, invece, restano. Insieme ai ruscelli, agli animali, al coraggio, alle prove, alla paura.
Soprattutto, aggiunge Tolkien, tutti gli uomini hanno in comune un grande desiderio di fuga: la fuga dalla morte. Per questo è necessario trovare consolazione. I racconti fantastici, con il loro lieto fine (che egli chiama Eucatastrofe), la forniscono sempre. Ma non basta. Il lieto fine è anche il più “realistico” di tutti, proprio perché nega la possibilità di sconfitta totale e finale. Perché qualsiasi lieto fine non fa che riflettere, in scala minore, la Grande Eucatastrofe, cioè l’ evangelium, che, il cristiano lo sa, chiuderà la storia.