«Al fedele combattente della monarchia in nome di Sua Maestà, Otto d’Asburgo»: pronunciando queste parole, il conte Franz von Trautmannsdorff, in rappresentanza dell’allora giovane capo della Casa d’Austria, gettò una manciata di terra sulla tomba di Joseph Roth (1894-1939) nel giorno dei funerali dello scrittore austriaco, che, emigrato a Parigi, era scomparso a soli 44 anni distrutto dall’alcolismo. Alla vita e all’opera di Roth il germanista Marino Freschi ha recentemente dedicato un libro (Joseph Roth, Liguori, Napoli 2013) che restituisce in maniera convincente e suggestiva le numerose sfaccettature della personalità dello scrittore e le idee cardine della sua esistenza e della sua produzione letteraria, essendo l’una strettamente legata all’altra. Non a torto Freschi definisce uno strano congedo il rito funebre col quale i suoi tanti amici e conoscenti diedero il loro addio a Roth, che, ebreo orientale di nascita, originario della Galizia, ai confini orientali dell’impero austro-ungarico, negli ultimi anni, mentre si impegnava con crescente convinzione sul fronte del legittimismo asburgico, si era inequivocabilmente avvicinato al cattolicesimo, al punto da definirsi a più riprese un cattolico austriaco, «un cattolico dal cervello ebraico»; con tutto ciò non esistono prove del suo avvenuto battesimo e quella della sua conversione rimane una questione senza risposta, non l’unica nell’esistenza di un uomo che, in maniera consapevole e sistematica, lasciava che la letteratura tracimasse nella sua biografia, e viceversa. Le sue esequie furono comunque celebrate col rito cattolico e con una consistente presenza di esuli austriaci cattolici e monarchici, il che suscitò il vivo disappunto di alcuni suoi amici di sinistra e degli ebrei presenti, come lo scrittore Soma Morgenstern, che nelle sue memorie non risparmia giudizi malevoli e rancorosi a questo riguardo. A detta di altri, invece, l’ultimo saluto a Joseph Roth avvenne proprio come il diretto interessato avrebbe voluto: «Se lo sarebbe sognato proprio così» disse uno dei presenti, «mancava solo la Marcia di Radetzky»; e, osserva Freschi, «probabilmente dal cielo dei santi bevitori, dove era stato finalmente accolto, Joseph Roth avrebbe senza dubbio acconsentito, sorseggiando il suo immancabile pernod» (p. 254).



Si potrebbe osservare che l’ultimo, estremo racconto di Roth, fu proprio la Leggenda del santo bevitore, una storia toccante, impregnata di una semplice, ma intensa religiosità cattolica, in conclusione della quale l’autore, quasi prefigurando la prossima fine, si augurava: «Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori una morte così lieve e bella!». Con ciò, l’enigma della conversione di Roth non sarà certo dissolto in queste poche righe. Piuttosto, importa sottolineare come, nell’ultima stagione della sua vita, davanti al collasso della civiltà europea e all’ascesa dei totalitarismi, Roth vide nel retaggio religioso-culturale del Sacro Romano Impero, nella forza spirituale della Chiesa cattolica e nella tradizione dinastica asburgica l’argine politico e spirituale in grado di opporsi alla modernità, concepita quale regno dell’Anticristo, e in particolare al dilagare del nazionalsocialismo.



Da qui il suo impegno per la restaurazione della monarchia in Austria, una dimensione di militanza politica che fu avvertita da Roth come estremamente importante e per la quale si impegnò con dedizione, al punto da accettare di compiere una disperata missione a Vienna nel vano tentativo, in extremis, di sventare l’Anschluss. Da qui anche le pagine indimenticabili che Roth dedicò al ricordo della vecchia Austria imperiale, allo stesso tempo una casa per i suoi tanti popoli e un baluardo, sebbene sempre meno solido, contro il definitivo affermarsi di una modernità «atea e brutale, da cui solo la fede nella tradizione e nella trascendenza, in cui essa si radica e si fonda, poteva salvare l’Europa» (p. 53).



Il ruolo storico dell’Austria si trasfigura così in una dimensione simbolica e metastorica; scrive Roth: «L’idea austriaca non è un’idea patriottica, bensì quasi religiosa. […] Le vere parole, ammesse in Austria, dovrebbero essere: universale, cattolica, sovranazionale, credente e grata a Dio» (p. 84). E il momento culmine che celebrava la fedeltà a Dio dell’Austria e il legame della sua dinastia con la Chiesa cattolica — pur all’interno di una composita compagine etnica e culturale nella quale venivano liberamente praticate anche altre religioni — era l’annuale processione del Corpus Domini, durante la quale l’imperatore stesso seguiva a piedi, con una candela in mano, il santissimo sacramento, ricordata in una pagina memorabile della Marcia di Radetzky. In quell’occasione tutto l’impero, nei suoi diversi popoli, ordini e ceti, si fermava per adorare il sacramento eucaristico e il sovrano si presentava come il servo dell’Altissimo. La devozione eucaristica era del resto un tratto caratteristico e molto antico della pietas absburgica: si ricollegava infatti a un filone leggendario relativo alla figura del capostipite Rodolfo, vissuto nel secolo XIII — il primo Asburgo ad essere eletto imperatore —, mentre la celebre divisa asburgica A.E.I.O.U., per lo più interpretata comeAustriae est imperare orbi universo, è stata sciolta anche in Adoretur Eucharistia in orbe universo.  

Con tutte le sue contraddizioni, l’antico impero e il suo sovrano rappresentavano pur sempre un argine contro il tracollo dell’Europa e della civiltà, fomentato dai movimenti nazionalistici e dalle nuove ideologie politiche: il conte Choinickj, nella Cripta dei Cappuccini, malediceva «questa pazza Europa degli Stati nazionali e dei nazionalisti», ricordando che il cuore dell’Austria batteva non a Vienna, ma nelle periferie dell’impero, dove sloveni, galiziani polacchi e ruteni, ebrei e musulmani bosniaci cantavano tutti il Dio conservi, mentre troppo spesso la borghesia austriaca si mostrava sensibile alle sirene del germanesimo e gli ungheresi si chiudevano nel loro compiaciuto sciovinismo magiaro. «Dall’umanità alla bestialità, passando per la nazionalità!» scrive Roth, citando Grillparzer, e prosegue sorprendentemente: «da Erasmo attraverso Lutero, Federico, Napoleone, Bismarck fino alle attuali dittature europee» (p. 76). Bisogna osservare che nella sua dura condanna del nazionalismo quale cancrena della civiltà europea, Roth non risparmiava affatto il sionismo. Per tutta la vita profondamente legato alla sua terra d’origine, la Galizia, e all’universo religioso-culturale dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale – immortalato soprattutto in Giobbe – Roth vide d’altra parte nel sionismo nient’altro che la declinazione ebraica del nazionalismo, attaccandolo nel modo più duro. Per lui le comunità ebraiche dell’Ostjudentum erano prima di tutto un imprescindibile tassello nel mosaico religioso, culturale e linguistico dell’Europa orientale e di quell’impero asburgico che fu per loro, nel complesso, una casa accogliente e molto presto rimpianta. È noto, del resto, come gli ambienti pangermanisti deplorassero la tolleranza e la tendenza all’indifferentismo etnico della dinastia e dell’imperatore Francesco Giuseppe, mentre Adolf Hitler covava addirittura un autentico odio verso gli Asburgo, in ragione della vocazione sovranazionale e multiculturale del loro impero.

L’abbattimento dell’impero lascia definitivamente senza patria i sopravvissuti del mondo di ieri, come il conte Morstin, protagonista dello splendido racconto Il busto dell’imperatore, che lamenta la perdita della vecchia Monarchia, la sua unica patria, l’unica possibile, che era come una grande dimora per tante specie di uomini: «Se per esempio gli avessero chiesto – ma a chi sarebbe venuta in mente una domanda tanto insensata? – a quale “nazione” o a quale popolo si sentisse di appartenere, il conte sarebbe rimasto alquanto confuso, addirittura stupefatto, davanti all’interrogante, e probabilmente anche infastidito e un poco indignato. […] Un’immagine in miniatura della varietà del mondo era appunto l’imperialregia monarchia, e perciò questa era l’unica patria del conte». In ultima analisi, la caduta e lo smembramento della monarchia danubiana acquistano anche una sfumatura apocalittica, dal momento che, quasi l’autore si ispirasse ad antiche interpretazioni medievali, era stato rimosso quel principio che conservava l’ordine e l’armonia sulla terra: «E il conte chiese all’ebreo: “Salomon, cosa te ne pare di questa terra quaggiù?”. “Signor conte”, disse Piniowski, “non ne ho più la minima stima. Il mondo è andato in malora, non c’è più un Imperatore”».

A questo punto, l’Austria di un tempo «viene intesa come la vera patria dei Wanderer» (p. 115), perduta la quale, ai vinti, agli esuli, ai sopravvissuti che popolano le pagine di Roth non rimane che la condizione del viandante perennemente in fuga. Emblematico il personaggio di Franz Tunda inFuga senza fine, le cui peregrinazioni possono essere paragonate a un’Odissea al contrario, un lungo, sofferto, anche avventuroso viaggio verso casa, ma la casa e la patria non esistono più, come del resto gli affetti di un tempo: «Penelope non tesse alcuna tela, bensì gioca a golf e balla il charleston» (p. 140). 

Esule, sradicato, senza patria come i suoi personaggi, Roth trascorse a Parigi i suoi ultimi anni vivendo in camere d’hotel, perennemente seduto a tavolini di caffè e bistrot, dove scriveva e al contempo riceveva gli amici e le molte persone con le quali era in contatto. E nonostante una vita disordinata da bevitore, così lo ricordava un conoscente: «Era un cavaliere. Sarà un’espressione stupida, ridicola, inusuale, ma lui lo era veramente, un imperialregio cavaliere» (p. 7).