«Un raro caso di pensiero cattolico fuori dal ghetto». «Quello di Giussani è un “itinerario moderno”, un percorso cristiano che è stato in grado di sottrarsi all’alternativa che ha segnato il pensiero cattolico dopo il Concilio Vaticano II: quello tra modernismo e reazione conservatrice». Sono due affermazioni tratte dall’introduzione di Massimo Borghesi al suo nuovo libro sul pensiero di don Giussani. È la prima volta che il pensiero di questa grande figura viene esplorato con uno sguardo complessivo, seguendone tutto il percorso storico. Il pensiero di Giussani non è infatti un pensiero “chiuso”, ma “sente” la storia e si sviluppa intercettandone tutte le fibrillazioni.
“Fuori dal ghetto” e “itinerario moderno”: due indicazioni che immediatamente tracciano l’orizzonte. Che annunciano la larghezza della prospettiva di don Giussani e la sua libertà.
Ovviamente siamo di fronte ad un libro complesso, profondo, che per essere affrontato avrebbe bisogno di maggior conoscenza delle grandi questioni messe su un tavolo e di uno spazio anche psicologico diversi da quello di una recensione. Tuttavia il pensiero di Giussani è un pensiero che si nutre sempre di immaginazione (ad un certo punto Borghesi giustamente dice che nel modo con cui ri-narra gli episodi chiave del vangelo, Giussani è come un “regista”: rivede e fa rivedere quegli episodi come un film). Per questo nella forza razionale del suo procedere, lascia sempre lo spazio per suggestioni impreviste, a volte con soluzioni lessicali di una commozione indimenticabile. È la natura del pensiero di Giussani a renderlo così affascinante: perché come scrive Borghesi, è un pensiero che «ha a che fare con il modo con cui percepiva l’esistenza di Dio come sua presenza reale, storica, come un fatto “presente”» («Le stesse parole del Vangelo e della Tradizione le leggevo in modo nuovo. Io “capivo”, ed altri con me, che Cristo era lì presente», don Giussani, 2000).
È un pensiero che si nutre continuamente di rapporti. Che si sviluppa mettendosi in relazione. Tra le tante relazioni documentate nel libro due, apparentemente agli antipodi, sono estremamente emblematiche. Quella con Montini e quella con Pasolini. La prima è documentata da Borghesi ricostruendo quel cammino che portò nel 1957 tutt’e due a mettere a tema la questione del “senso religioso”. Montini lo fece con la lettera pastorale quaresimale di quell’anno, spiazzando tutti per aver scansato i consueti temi di ordine morale; Giussani è il primo cogliere la provocazione di Montini con un documento pubblicato a dicembre. Cosa muoveva questi due grandi cattolici lombardi? La percezione coraggiosamente realistica (e drammatica) di una fede chiusa nel guscio protettivo del formalismo della tradizione e incapace di reggere all’urto del laicismo borghese e dell’ateismo marxista. Montini non contrasta la modernità opponendo diverse categorie morali, ma la prende alle spalle, riproponendo un dato di natura, quello «dell’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino».
La natura umana è “capax Dei”. Scrive Borghesi che Montini evidenziando questa dimensione religiosa strutturale «delineava… il terreno di un confronto “positivo” con la società e la cultura moderna». È interessante notare come Montini e Giussani convergano, anche dal punto di vista lessicale, sulla categoria di “cuore” «come sede dell’impeto originale della persona». È il cuore dell’uomo che, secondo tutt’e due, cerca e domanda una “corrispondenza” (altra parola a cui ricorrono entrambi) con le attese originali di totalità. Ed è il cuore che rende inquieto l’io, quando questa corrispondenza non si palesa.
Inquieto era ad esempio il cuore dell’altro personaggio cui facevo cenno, Pier Paolo Pasolini. C’è qualcosa di grandioso nel modo con Giussani immagina questo rapporto che nella realtà fu purtroppo un rapporto inattuato. Partendo da una condivisione di giudizio umano e storico sulla situazione dell’Italia e della chiesa, Giussani fa un salto logico assolutamente intuitivo. Confidò infatti a Lucio Brunelli, dopo aver letto l’editoriale Potere senza volto, uscito sul Corriere della Sera il 24 giugno 1974, che Pasolini era «l’unico intellettuale cattolico italiano, l’unico…». Giudizio che, destinato a un omosessuale e non frequentante, rende l’idea di quanto fosse anti-schematico il pensiero di Giussani. Un pensiero che non rinuncia neanche in questo caso ad essere immaginativo. Parlando di Pasolini nel 1987, ne traccia una parabola che dall’esperienza di cattolicesimo vissuto grazie alla fede di sua madre, sperimentò poi un distacco… «Ma lentamente», immagina Giussani, «nella sua vita, si è sentito riecheggiare quello che diceva sua madre sulla vita, sulla verità, sulla strada da battere. Se avesse incontrato uno con la nostra passione, se fosse venuto ad un gesto della nostra comunità, Pasolini avrebbe pianto». Il pensiero di Giussani è un pensiero aperto, vivo, che a volte si vena, come in questo caso, di struggimento davanti al mistero drammatico di un incontro mancato.
–
Massimo Borghesi, “Luigi Giussani. Conoscenza amorosa ed esperienza del vero. Un itinerario moderno”, Edizioni di Pagina, Bari 2015.