Svizzera, inverno 1922. Nel castello di Muzot, tra il 2 e il 5 febbraio, Rilke compone quasi di getto 25 poesie (destinate a formare la prima parte dei celebri Sonetti a Orfeo). Tra il 7 e il 14 dello stesso mese, in un vero e proprio tripudio creativo, il poeta modifica la Quinta, completa la Sesta, la Settima e l’Ottava, cambia l’inizio della Nona e termina, con la stesura della Decima, il grande ciclo delle Elegie duinesi: suo indiscusso capolavoro. Ma non basta. Durante la seconda metà di febbraio egli stende ancora una trentina di liriche, destinate a formare la seconda parte dei Sonetti a Orfeo: l’altra sublime raccolta poetica dell’estrema maturità rilkiana. Ma cosa differenzia la monumentalità delle Elegie dalla levità dei Sonetti? In primo luogo forse la vocazione di questi ultimi a porsi in modo formalmente/concettualmente meno poderoso – però al contempo meno ponderoso -, assumendo una tonalità più lieve e un respiro/registro più sereno. Sono peraltro d’accordo senz’altro con Rina Sara Virgillito sul fatto che i Sonetti costituiscono un vero e proprio miracolo di perfezione e con Andreina Lavagetto che essi comunque rappresentino l’opera più gioiosa che Rilke abbia scritto.



Dedicati alla memoria della diciannovenne Wera Ouckama Knoop — morta di leucemia: morbo fatale che porterà alla tomba lo stesso Rilke — I sonetti a Orfeo hanno quale personaggio emblematico il mitico cantore tracio, in grado di attraversare grazie alla sua arte prodigiosa: “entrambi i regni”, ovvero sia l’ambito mondano che quello ultramondano. Va tuttavia precisato come per il Nostro non vi sia vera contrapposizione fra tali mondi, in quanto a suo dire: “non c’è un aldiquà e un aldilà, ma solo un’unità immensa” (da una lettera del poeta a Witold von Hulewicz). In quest’ottica la morte è appena una metamorfosi; ne deriva un equanime sì alla vita, anche nei suoi aspetti angosciosi, quali la vulnerabilità e l’apparente annichilirsi degli esseri umani al momento del loro exitus dalla realtà terrena.



Ma presso l’Orfeo rilkiano non vi è tanto la sposa Euridice — la quale fa una breve apparizione nel Sonetto 2: XIII — quanto piuttosto una presenza femminile a lei parallela, ossia Wera, che in queste poesie sembra assumere i tratti archetipici della Core junghiana, metamorfizzandosi in ulteriori figure: siano esse giovinette danzanti, ragazze allo specchio o fanciulle in fiore. È pur vero che la poesia dedicata a Euridice (qui ancora una volta però intesa sempre a raffigurare l’amica prematuramente scomparsa di Rilke) diviene chiave di volta di tutta la costruzione poetica. Vale dunque la pena riportarla per intero. “Ogni commiato precorri, come già fosse dietro di te, / quale l’inverno che adesso svapora. / Perché tra gli inverni uno così interminabile v’è, / che, nello svernare, il tuo cuor può resistere ancora. // Sempre sii morto in Eurídice -, cantando cammina, / lodando risali nel puro rapporto a ritroso. / Qui, tra svanenti svanendo, sii, nel regno che inclina, / sii il tintinnio d’un vetro che è, tintinnando già imploso. // Sii – e conosci al contempo del non-essere la condizione, / e il fondo infinito alla tua profonda pulsione, / che in quest’unica volta pienamente compiuta diventa. // L’usata, e del pari la sorda, la muta comprendi / riserva di colma natura; a quelli indicibili addendi / in gioia sómmati tu – ed il numero annienta”.



Ritengo che da questi versi emerga a chiare lettere la Weltanschauung, la visione del mondo rilkiana: dapprima nel monito a precorrere ogni addio, quasi fosse ormai avvenuto, disponendoci così in anticipo ad abitare con cuore saldo l’interminabile (endlos) stagione invernale che è metafora insieme dell’eternità dell’essere e cifra abissale del suo mistero. Non si tratta più, quindi, di opporsi all’umana finitudine con la hybris arrogante d’un Orfeo che vorrebbe a ogni costo abolire la morte — convinto di poter strappare all’Ade la sposa — ma di accettarla/accoglierla (“Sempre sii morto in Eurídice”). È poi, in parallelo, l’invito a un amore che non pretenda possesso/controllo, ma abdichi a tale effimera signoria aprendosi a una com-prensione inclusiva che possa far nascere in noi una letizia giubilante (jubelnd).

Che altro rimane da fare, all’uomo, al poeta? L’invito finale di Rilke, novello Orfeo, — indirizzato nel sonetto conclusivo dell’opera a un amico di Wera, ma implicitamente rivolto a tutti i lettori — è il seguente: “Quale campana cupa che rintocca / lasciati suonare”; dai cioè ospitalità a ogni evento: luttuoso o gioioso che sia, e non opporti al “mutare” (Wandel). Nella consapevolezza che (come recita il sonetto 1: XIX): “A noi, del dolor nostro ignari, / e dell’amor mai appreso, / che cosa, nella morte, separi // indisvelato è ancora. / Unico il canto sul mondo sospeso / consacra e onora”. Perciò ci sia di conforto il canto, strumento della Divinità, il quale solo può accennare alla dimensione del Sacro, che è poi la nostra: quella dell’Essere che mai vien meno.

Un’ultima considerazione, infine. Quella sull’aspetto davvero problematico dell’arduo compito di tradurre i Sonetti. Molti si sono cimentati in tale impresa (da Giacomo Cacciapaglia a Franco a Rella; da Rina Sara Virgillito a Sabrina Mori Carmignani) e con esiti ragguardevoli. Ma forse la traduzione de I sonetti a Orfeo — pubblicata da Moretti&Vitali — a cura di Carlo Testa (docente di italiano e letterature comparate all’Università della Columbia Britannica) è quella che, a mio avviso, consiglierei ai lettori per via della sua inconsueta capacità di rendere nella nostra lingua non solo le rime, così essenziali nella metrica di quest’opera, ma soprattutto la sua estrema musicalità: l’accento e il ritmo canori che la caratterizzano, come spero si sia potuto evincere dai pochi versi qui citati. Testa, insomma, non vuole esser attento solo alla componente semantica della parola poetica ma anche a quella acustica, a ogni elemento cromatistico sonoro. La sua quindi potrebbe essere indicata come la traduzione stereometrica di questi canti (Lieder) che pure in lingua italiana appaiono all’insegna della composizione musicale: per una musica/poesia non certo solo banalmente incline a inseguire il mero lirismo melodico, ma attenta soprattutto all’armonia e all’euritmia che l’abissale verticalità/felicità dei Sonetti sa creare.