Azzardati paralleli col mondo classico sono già stati proposti, e non è bene quindi che un antichista prosegua in questo suggestivo ma disagevole esercizio. L’immortale dialogo tucidideo tra Ateniesi e Meli richiamato dal New York Times, incongruo al caso attuale, avrà avuto almeno il sapore della provocazione, visto che in quel caso erano proprio gli Ateniesi a praticare su una comunità inerme la spietata legge dell’imperialismo. E pazienza se in Italia chi ha rigettato il paragone con Tucidide ne abbia poi proposto un altro addirittura con Polifemo. Per gli amanti del genere c’è sempre il brutale Callicle di Platone, che invoca la legge di natura e la sottomissione del debole, o l’ennesima incarnazione postuma di Spartaco, che certo getterebbe su Tsipras una sinistra ombra di preveggenza. Tutte analogie forzate, buone per un elzeviro in punta di citazione, o un saggio di propaganda dal fiato corto.
Piuttosto, se proprio si vuole affermare un ricorso storico, si potrà meglio pensare agli anni successivi alla Rivoluzione, quando le cancellerie europee imposero ai greci, con atto autoritario e senza mediazioni, un re e un governo tedeschi. Ne seguì la forzata importazione del modello economico bavarese; il disprezzo per le usanze elleniche e la «superstizione» del loro culto; le accuse di ignavia, improduttività e spreco; la conseguente esplosione in Grecia di rivendicazioni identitarie contro la prepotenza straniera; la divisione nella politica interna tra conservatori filorussi ed “europeisti” filofrancesi. Tutto questo avvenne poco meno di due secoli fa, e fu per la Grecia il salatissimo prezzo per liberarsi dal giogo ottomano e rientrare nell’orbita del cosiddetto Occidente.
Ma la verità è che di paralleli storici i greci di oggi non sentono alcun bisogno. E per quanto nelle redazioni europee e statunitensi si sia largheggiato nella retorica dell'”Ellade classica”, della “culla della civiltà”, della “patria della democrazia”, l’aria che si respirava ad Atene nei giorni prima del voto non sembrava affatto viziata da questi classicistici ingombri. Il dentista che mi annunciava il suo «no», il bancario che difendeva il «sì», il tassista che aggirava la domanda, e indicava però all’aeroporto gli infiniti depositi di taxi abbandonati, non hanno mai addotto argomenti di questa specie. E d’altronde il motivo per cui l’Europa è oggi chiamata a liberare la Grecia dalla morsa dei creditori non può essere ridotto a un tributo di gratitudine per le tragedie di Sofocle: né la legittimazione del referendum potrà contentarsi di invocare la pratica assembleare dell’Atene di Demostene.
È giusto chiedersi dunque se sia stato opportuno proporre questo referendum. Né saranno irragionevoli le riserve formulate dai grandi quotidiani europei (e moltissimi greci). È vero che da quarant’anni in Grecia non si celebra alcun referendum: i cittadini saranno stati pronti? È legittimo permettere al debitore di votare le proposte dei creditori? Non c’è forse un cortocircuito tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta?
Eppure, per quanto efficaci possano suonare questi argomenti (altri se ne potrebbero aggiungere), chi li formula e li approva dovrebbe prima o poi cimentarsi con un’altra e ben più urgente domanda: è ancora possibile — e se sì, come e quando — offrire ai cittadini europei la possibilità di esprimersi su decisioni che condizionano la loro vita quanto nessun’altra legge nazionale? Non avrà forse ragione chi invoca la necessità di una scossa, quanto meno simbolica (cioè politica), di affermazione popolare?
Perché il problema non è che uno Stato possa indire un referendum sulle condizioni di permanenza in Europa (a prescindere dai contenuti tecnici del quesito): il problema è che i cittadini di quello Stato non hanno mai votato sulle condizioni di entrata. Aggirare questo vulnus iniziale non è possibile. E certamente non è onesto.
Di qui in poi la pratica dell’analogia storica può avventurarsi per qualsiasi via. Un buon modo di articolarla potrebbe ad esempio essere questo: domandarsi entro che limiti la posizione di Tsipras ambisca o riesca ad essere, nel panorama della politica europea, realmente rivoluzionaria. Non importa scomodare paragoni con questo o quel rivoluzionario del passato, da Spartaco a Robespierre, da Lenin a Castro: importa osservare che non di rado il rivoluzionario è tale proprio perché afferma, contro l’opinione vulgata, parole di verità scomoda. A Spartaco e Robespierre andò male: è andata meglio a Lenin e a Castro. Chi vuole potrà esercitarsi a indovinare a quale categoria debba iscriversi Tsipras. Eppure la domanda rimane: chi denuncia le storture politiche dell’Europa attuale, l’iniquità di un sistema finanziario interamente sbilanciato a favore delle potenze del nord, la miopia di scelte politiche che mortificano quasi fino all’inibizione il senso di appartenenza europea, pronuncia o non pronuncia parole di verità?
Non saremo noi a ricordare ai lettori di queste pagine che «l’albero si giudica dai suoi frutti». Se dunque il linguaggio di Tsipras è un linguaggio di verità, darà frutto senz’altro. Se non in Grecia, altrove.