Chi ha il mito del viaggio deve essere parente di chi aveva il mito dell’aldilà. Dicono che un tempo c’era chi disprezzava la terra e amava il cielo. Non voleva stare qui, ma andarsene altrove. Perché la terra era una valle di lacrime, e qualche consolazione in un aldilà doveva pur esserci. Era bello fabbricarsi un mondo a parte, ma ci voleva fede (che poi proprio fede non era, né dantesca né cristiana: paradiso artificiale, per sottrazione anziché per attrazione). 



Mi pare che lo stesso principio escatologico valga per il viaggio, nel mondo secolarizzato. È una nuova fede, e per crederci davvero occorre disprezzare il qui e ora. Un viaggiatore (versione duepuntozero del pellegrino) deve sapersi abbandonare ciecamente ai suoi viaggi, sognando che in quei miraggi risieda la salvezza alla vita che non funziona. Che il lavoro sia la croce, e la vacanza invece la resurrezione. Bisogna credere intimamente al principio della distrazione, coi suoi precetti dello “staccare la spina” e simili. Consegnarsi a questi dogmi a cui tanta gente non ha abboccato per millenni: loro che la sera non andavano in pizzeria, loro che non avvertivano il bisogno indotto di viaggiare.



Oggi chi negherebbe un bel viaggetto-premio al figlio promosso? Eccoli, i «viaggiatori che si lasciano viaggiare», come li chiamano Dalla e De Gregori in Gran turismo: si trovano nella valle dei templi, fanno la loro fotina, si taggano e ripartono. «E arrivano sul tetto del mondo senza nemmeno guardare / Si fermano appena un secondo per fotografare. / È gente che sa viaggiare, abituata a viaggiare, / di notte noleggiano bici sul lungomare» (o «noleggiano baci sul lungomare», con la stessa facilità). «Un uomo se è un uomo davvero radici non ha, / stasera si dorme a Berlino, domani chissà».



Io non ho la grazia di avere fede nei viaggi. Sono troppo materialista, non so staccarmi da terra. Parigi, Barcellona, Londra, Ibiza non mi attirano: mi piace il mio quartiere, la mia spiaggetta. Per me non c’è confronto tra l’America e la Puglia. Aspetto il lunedì più che il sabato. Detesto le gite, mi esalta un’ora di lezione. Non mi interessa la novità, vado pazzo per il solito. Voglio rivedere i miei amici, i miei figli, i miei libri, cantare le stesse canzoni, mille volte, scavando e riscavando, scoprendo profondità insospettate. Fremo per quello che conosco, e potrei perfino aprirmi a quello che non conosco: ma infinitamente più bello è ciò che mi conosce. Una radice vale di più di mille petali. Sono indissolubilmente pavesiano (ogni altro scrittore è un tradimento). 

«Perché c’è più abitudine nell’esperienza ad ogni costo (cfr. il brutto “viaggiare ad ogni costo”), che nella normale rotaia accettata doverosamente e vissuta con trasporto e intelligenza. Sono convinto che c’è più abitudine nelle avventure che in un buon matrimonio. Perché il proprio dell’avventura è di serbare una riserva mentale di difesa; per cui non esistono buone avventure. È buona quell’avventura cui ci si abbandona: il matrimonio insomma, magari di quelli fatti in cielo. Chi non sente il perenne ricominciare che vivifica un’esistenza normale e coniugata, è in fondo uno sciocco che, quantunque dica, non sente nemmeno un vero ricominciare in ogni avventura» (Il mestiere di vivere, 23 novembre 1937).

È più avventurosa la «normale rotaia» che le esperienze nuove. Nei bei viaggi, nelle serate diverse, non inizi mai, perché sai già che quando vuoi potrai andartene. Sono parentesi, non hanno sintassi. La convivenza, il fidanzamento, la storiella, puzzano di già saputo, di vecchia fregatura, di ennesima uscita d’emergenza. Solo quando trovi una tua storia rischi davvero, solo qui cominci qualcosa. 

«Siamo convinti che una grande rivelazione può uscire soltanto dalla testarda insistenza su una stessa difficoltà. Non abbiamo nulla in comune coi viaggiatori, gli sperimentatori, gli avventurieri. Sappiamo che il più sicuro — e più rapido — modo di stupirci, è di fissare sempre imperterriti lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà — miracoloso — di non averlo mai visto» (Il mestiere di vivere, 20 febbraio 1946).

Stupirsi del solito, questa è la novità. Come succedeva a Paul Cézanne la centesima volta che guardava — e dipingeva — il monte Sainte-Victoire. Cambiare, come viaggiare, è un alibi per non scoprire mai niente. Con l’illusione aggiuntiva di scappare da sé. Ma – lo osservava giustamente già due millenni fa Seneca – «nusquam est qui ubique est»: non è in nessun posto chi è dappertutto. 

«E allora si mettono a viaggiare senza una mèta precisa, di spiaggia in spiaggia, mettendo alla prova — per terra e per mare — la loro volubilità, sempre scontenti di quel che hanno. “Ora andiamo in Campania”. Ma presto i luoghi raffinati li annoiano. “Cerchiamo terre selvagge: visitiamo la Calabria e le foreste della Lucania”. In quelle solitudini desolate, però, si sente il bisogno di qualcosa di ameno con cui ristorare gli occhi, avvezzi alle belle cose, dallo squallore di quei luoghi aspri. “Andiamo a Taranto, col suo porto famoso, quel clima invernale tanto mite, e con tante risorse da bastare anche per la popolazione di una volta… Ma torniamocene a Roma: da troppo tempo le mie orecchie sono lontane dal fragore e dagli applausi: voglio di nuovo godermi uno spettacolo con sangue umano!”. E così si fa un viaggio dopo l’altro, si passa da uno spettacolo all’altro. Come dice Lucrezio: “Così ciascuno sfugge sempre se stesso”. Ma a che giova, se non si riesce a sfuggire? Il nostro io ci sta sempre dietro e addosso, come un compagno insopportabile» (Seneca, De tranquillitate animi, 2). 

Sette secoli fa Dante non aveva bisogno di sfuggire al proprio io, anzi non voleva smarrirlo; la vita era un cammino, cioè aveva una meta. Poi cominciò l’epoca dei cavalieri erranti, e pian piano passammo dall’homo viator all’«io vagabondo»: a quello che qui giù non sa dove andare, ma si consola che «lassù» gli è «rimasto Dio». È il Ligabue che «certe notti la strada non conta, quello che conta è sentire che vai» (e tanti saluti al pieno di benzina!), il Cremonini che «non è importante dove, conta solamente andare, comunque vada». Dalle crociate alle crociere. Dall’ideale alla noia. Dalla felicità al Cocoricò. 

Sorry, io so dove andare: dove l’istante normale è attraversato dalla dismisura dell’eccezionale, e «il divino è totale nel sorso e nella briciola» (Montale, Rebecca).

«La noia indicibile che ti dànno nei diari le pagine di viaggio. Gli ambienti nuovi, esotici, che hanno sorpreso l’autore. Nasce senza dubbio dalla mancanza di radici che queste impressioni avevano, dal loro esser sorte come dal nulla, dal mondo esterno, e non essere cariche di un passato. All’autore piacquero come stupore, ma lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità» (Il mestiere di vivere, 2 agosto 1942).

Hai ancora una volta ragione, mio grande amico Pavese: «lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità». Non di viaggio, ma di cammino. Non di fughe, ma di permanenze. Non di una casa da cui scappare, ma di un viaggio da cui non vedi l’ora di tornare. L’estate che sgocciola nell’inverno, il mare che inzuppa i libri, i treni che fischiano in ufficio. L’avventura non è partire, è rimanere.