Caro direttore,
il 12 agosto di quest’anno si ricorda il 110mo compleanno di Hans Urs von Balthasar, “l’uomo più colto del suo tempo”, come si espresse Henri de Lubac, certamente un grande avvenimento teologico nella storia della teologia cristiana. Nel 1978 vivevo in un quartiere operaio di Torino, Mirafiori Sud, e quando avevo quindici anni avevo avuto un grande parroco, Paolo Gariglio, ma era stato mandato a Nichelino, in un’altra parte della periferia di Torino e così mi sentivo, dal punto di vista della comunità cristiana, un po’ orfano. Nel liceo scientifico che frequentai fino al 1980 ebbi come insegnante di filosofia Francesco Coppellotti, traduttore di alcune opere importanti del marxista eretico Ernst Bloch (1885-1977), che con la sua filosofia dell’utopia aveva affascinato la generazione del 1968.
Coppellotti, che era stato intimo amico di Henri de Lubac (1896-1991), pur in posizioni filosofiche direi quasi opposte, vedendo in me un giovane cattolico pieno di domande mi diede l’indirizzo di Balthasar a Basilea e mi suggerì di scrivergli. Gli scrissi una lettera in cui gli chiedevo che cosa dovessi fare per diventare un buon cristiano. Avevo appena incontrato Giulio Girardi, una delle menti più lucide della teologia torinese di quegli anni, che aveva appena lasciato il sacerdozio ed era autore di un’opera interessante su cristianesimo e marxismo. Chiesi a Balthasar se, per essere un buon cristiano, dovessi diventare prete operaio. La sua risposta (che pubblicai poi negli anni novanta in un libro edito da Piemme con una raccolta di testi di Balthasar, Incontrare Cristo), fu per me sorprendente, in primo luogo perché questo grande della teologia cattolica si prendeva il tempo di scrivere ad uno sconosciuto ragazzo della periferia di Torino, ma anche per il contenuto, che portò però frutti non immediati — visto che era appena cominciata, con la lettura de Ateismo nel cristianesimo di Ernst Bloch, una fase della mia vita che mi portò dal 1980 al 1987 a vedere nello spirito dell’utopia e non nella presenza cristiana la fonte prima di speranza.
Il contenuto di quella prima lettera di von Balthasar era del tutto ignaziano e si può forse riassumere, con le mie parole, così: non devi fare nulla per diventare un buon cristiano, perché non il tuo, ma il Suo operare è decisivo. Tu devi metterti a disposizione di ciò che il Signore vuole fare di te; potrebbe per esempio anche sceglierti per diventare un trappista. Decisivo è che “lei diventi uno strumento della sua volontà salvifica”.
Questa “inversione” di ogni attivismo è forse il filo rosso di tutta l’opera di von Balthasar, che nella sua grande trilogia teologica comincia con una determinazione “ultima” dell’essere: la bellezza, che viene vista come il primo passo della trilogia. Se una cosa non è bella, non avremo mai la possibilità che ci appaia come buona e vera. Sulla croce è visibile tutta la bellezza, meglio la “gloria” di Dio.
La seconda mossa della trilogia è la “teodrammatica”, non tanto quindi una riflessione etica sulla bontà dell’essere, ma su quel bene ultimo senza il quale anche le cose buone rimangono ambigue: la libertà. Il mondo intero è visto come un grande palcoscenico in cui la libertà di Dio e quella dell’uomo lottano per un senso ultimo. L’ultimo passo della trilogia è la verità, che Balthasar presenta sotto il termine di “teologica”. Anche qui abbiamo a che fare con un’inversione. Pur riconoscendo la necessità di una riflessione sul soggetto conoscente, e riconoscendola fino al punto di dire, nell’introduzione della Teologica, che “non si da teologia senza filosofia”, la verità è “qualcuno”, non “qualcosa”, qualcuno che interpella la capacità dialogica dell’uomo; e non è un caso che Balthasar si sia occupato spesso di un grande filosofo del dialogo come Martin Buber.
Come a Luigi Giussani — lo spiega in modo molto chiaro Massimo Borghesi nel suo libro appena uscito sul fondatore di Cl — anche ad Hans Urs von Balthasar è estranea ogni forma di “ontologismo”, che definirei come una concezione dell’essere che anticipa il logos cristiano. Ma ciò non significa che i due grandi amici non abbiano un senso ontologico del reale. Per entrambi l’essere è dono che l’uomo può ricevere da un amore assolutamente gratuito e libero. Balthasar ha approfondito questo tema filosofico nel volume di “Gloria” dedicato allo “Spazio della metafisica”, in dialogo con un altro suo grande amico, Ferdinand Ulrich, che nel suo Homo Abyssus. Il rischio della domanda sull’essere (1961), in un gigantesco schizzo filosofico, scritto guardando direttamente negli occhi Hegel ed Heidegger, faceva comprendere che lo stupore che qualcosa sia invece del niente, nasce solamente se l’essere non è qualcosa di cui essere il pastore, ma l’atto di una persona che nella sua assoluta libertà ci intende radicalmente, ci vuole completamente. Si dona nell’amore per e di Suo Figlio senza riserve fino a confessare davanti al mondo, sulla Croce, il peccato del mondo stesso, come si esprimeva l’altra faccia della teologia balthasariana, Adrienne von Speyr (1902-1967); senza la considerazione della quale, non è possibile comprendere il cuore di questa grande opera teologica.
Secondo me, certo anche con altri avvenimenti teologici ed ecclesiali, questa teologia affascinata dal gratuito amore di Dio è stato uno dei semi che Dio ha posto per far nascere il pontificato di papa Francesco, che non insiste su una dottrina da difendere dal peccato del mondo, ma è così affascinato dall’amore gratuito di Dio che ci porge sempre nell’ora in cui viviamo un amore concreto, da esprimere esistenzialmente; per chi ha “occhi per il cielo” la presenza di quel Tu senza il quale il mondo perisce nella sua assurdità.
Il miracolo più grande è che anche alcuni che si pensano “fuori” della Chiesa se ne accorgono, e che la stessa dialettica di chi sta “fuori” e chi sta “dentro” è messa radicalmente in questione. “Perché credibile è solo l’amore”, e questo cambia il “fuori” in “dentro”.