Non sono uno storico e non ho titolo per parlare dei tragici eventi di Otranto, se non per trarre alcuni spunti di riflessione sulla contemporaneità di quelle conseguenze; se non per rimarcare le ragioni di attualità che ancora ne derivano e che continuano a commuovere e a muovere tante persone.

1. I fatti sono noti. Il 28 luglio 1480 sulla costa otrantina sbarcò una possente flotta turca (140 navi con 15mila soldati), che cinse d’assedio la città. La guarnigione aragonese del Re di Napoli non fu in grado di fronteggiare l’ondata ottomana e abbandonò gli otrantini a se stessi. Piuttosto che arrendersi, questi resistettero eroicamente per circa due settimane, fino a quando le milizie musulmane riuscirono a sfondare le mura, massacrando i civili e saccheggiando la città. Gli 800 superstiti maschi, posti innanzi all’alternativa se abiurare la propria fede o perdere la propria vita, decisero di rimanere cristiani e furono decapitati.



Vorrei parlare di quei fatti da quasi-otrantino, da osservatore privilegiato di un legame antico, forte e sempre attuale fra gli otrantini di oggi e quelli del 1480, fra il popolo di Otranto e il popolo dei martiri. Perché questo è il primo dato che a Otranto sempre sorprende: quello di un legame fra gli uni e gli altri discreto, plurale per sensibilità e credenze, eppure indiscutibile e indissolubile, che non teme flessioni soggettive, così com’è certo e oggettivo il succedere dello scirocco alla tramontana. Più ancora, com’è certo il ciclo dell’esistenza di ogni uomo. Gli episodi di quei giorni, infatti, hanno a che fare con la vita, con la morte e con l’evolversi delle ragioni dello stare insieme, sino a chiamare in causa e a giudicare il senso delle nostre povere esistenze. Parafrasando il titolo del romanzo di Maria Corti, l’Ora di tutti, verrebbe da dire che a essere coinvolta in quei fatti è l’ora di ognuno.



Un legame di tale natura, che apre un varco d’infinito nella vita finita di ciascuno, è solito chiamarsi devozione. Si tratta di una parola che gli strascichi della secolarizzazione selvaggia degli ultimi decenni rischiano di fare intendere in senso riduttivo. Più semplicemente, essa vuole significare il riconoscimento grato di una contemporaneità affettiva e di giudizio verso una persona che non è più in vita, la cui esistenza e la cui memoria sono però capaci di conforto, aiutano a mobilitare le ragioni della libertà di ciascuno, a sostenerne il peso e a indirizzarne l’energia. Un po’ come constatava Charles Péguy arrivando in pellegrinaggio a Chartres: “Ecco il luogo ove tutto resta più facile“.



E’ questa la prima provocazione che proviene da quegli eventi: un legame stretto e certo verso un fatto del passato, la cui memoria, però, rende più facile il presente. E ciò sin da subito, posto che — come narrano le cronache — era grande nel popolo e finanche nei medesimi turchi il senso di “meraviglia” per i segni che derivavano dai corpi degli otrantini martirizzati. Sicché si diffuse la tradizione di dare il nome di Martire al proprio figlio. 

Sempre, del resto, il martirio porta con sé una conseguenza paradossale. Esso avviene all’esito di una sconfitta plateale provocata dal potere dominante; coincide con una disfatta assoluta e ingiusta della vittima; si consuma con cattiveria e senza speranza di rivalsa umana e politica. Eppure, esso è tale da trasformare il male di quella barbarie in motivo di pacificazione e di stupita gratitudine; non apre all’odio, ma al riconoscimento commosso di un bene imprevedibile; sicché la memoria di quel passato rende più facile e grato il presente. 

2. Otranto è cresciuta così. Se è vero che i luoghi fanno la storia, è anche vero che la storia forma il senso di quei luoghi. Sicché fra il prima e il dopo gli eventi del 1480 tutto è proseguito ininterrotto, ma nulla è restato uguale.

Certamente Otranto ha conservato la propria forza simbolica di luogo di dialogo interculturale e interreligioso nel Mediterraneo. Un dialogo sperimentato già prima dello scisma del 1050 fra oriente e occidente e poi incrementato e reso più autorevole dalla fondazione dell’università, la quale anticipò le pari esperienze di Bologna e d’Inghilterra, per giunta istituendo borse di studio per i bizantini che vi partecipavano. Ed è sempre da una simile esperienza culturale e identitaria, che è derivato il mosaico pavimentale della Cattedrale: una delle più possenti rappresentazioni della storia dell’umanità; una summa del sapere senza barriere religiose, culturali e geografiche, nella quale la centralità del fatto cristiano si coniuga con la pluralità delle simbologie raffigurate (l’albero della vita, l’asino con la lira, il leone di Bagdad, gli elefanti dell’India), sino a contemplare la concretezza degli accadimenti (la guerra, la costruzione della pace, il ritmo dei mesi) e a raffigurare i particolari più quotidiani e umili della vita degli uomini (gli utensili di lavoro, la pendola dei pomodori). Si tratta di una rappresentazione che, parafrasando von Balthasar, poneva “il tutto nel frammento“. In quella ricostruzione ancora adesso ciascun visitatore può sempre trovare un proprio riferimento personale. Nessuno, anche se straniero o ignorante, può sentirsi escluso da una simile narrazione; sicché, per analogia, nessuno può sentirsi estraniato dalla grande Alleanza lì raffigurata fra Dio e l’uomo.

Eppure, riprendendo San Paolo, verrebbe da dire che tutta quella ricchezza artistica, culturale e religiosa fu nullaal cospetto di quanto accadde poi, nei tragici eventi del 1480; e anzi, che quanto avvenne in quei giorni fece comprendere il prezzo e il significato di quanto in precedenza effigiato nel mosaico: un’Alleanza che si trasforma in Incarnazione al prezzo del sangue dell’Incarnato.

Del resto è sempre così. E’ sempre il sangue dei martiri a smentire i pur nobili tentativi dell’uomo di costruire da sé quella che Agostino chiamava la Città di Dio, come bene esplicita nel mosaico la scena della costruzione della torre di Babele

Ha destato dolore e commozione il tragico video del califfato islamico dello scorso febbraio, che ritraeva 21 egiziani copti poco prima di essere sgozzati. Osservando attentamente il video di quegli uomini con le tute arancioni, allineati in riva al mare nell’attimo prima di morire, è stato rilevato che uno di loro bisbigliava con le labbra due parole, una sommessa preghiera che tocca il cuore, giù, nel profondo: “Gesù aiutami“. Il giorno dopo la divulgazione della notizia Papa Francesco, nel corso dell’udienza con il moderatore della Chiesa riformata di Scozia, ancora scosso da un tale martirio ha interrotto il discorso ufficiale e ha pronunciato a braccio e in spagnolo, sua lingua madre, il seguente messaggio: “Oggi ho potuto leggere dell’esecuzione di quei ventuno (o ventidue) cristiani copti. Dicevano solamente: «Gesù aiutami!». Sono stati assassinati per il solo fatto di essere cristiani. Lei, fratello, nel suo discorso ha fatto riferimento a quello che succede nella terra di Gesù. Il sangue dei nostri fratelli cristiani è una testimonianza che grida. Siano cattolici, ortodossi, copti, luterani non importa: sono cristiani! E il sangue è lo stesso. Il sangue confessa Cristo. Ricordando questi fratelli che sono morti per il solo fatto di confessare Cristo, chiedo di incoraggiarci l’un l’altro ad andare avanti con questo ecumenismo, che ci sta dando forza, l’ecumenismo del sangue. I martiri sono di tutti i cristiani“. 

Sempre, insomma, il sangue dei martiri giudica e anticipa l’uomo nella costruzione della civiltà della verità e dell’amore.

3. Credo che gli eventi di Otranto vadano inquadrati nella drammaticità della prospettiva richiamata. Diversamente, essi verrebbero a perdere la propria specificità; resterebbero incomprensibili le ragioni tanto dell’eroicità e santità di allora, quanto dell’ammirazione civile e della devozione religiosa di oggi; tutto sarebbe risolto a folklore pseudo-religioso, da celebrare alla stregua di una qualunque sagra della tarantola.

Per contro, proprio la considerazione della vicenda umana di quei giorni è tale da attribuire a quei fatti una diversa connotazione; è tale da rendere ragione della straordinaria e imprevedibile reazione degli otrantini. E anzi, il fattore umano emerso in quei momenti rende quegli accadimenti irriducibili a ogni possibile trasposizione sia storicista, sia occidentalista. Sicché risultano artificialmente forzate quelle ricostruzioni che riducono il tutto ai dettami dei presupposti ideologici impiegati nella relativa analisi. Quei fatti non possono essere irregimentati nelle solite categorie degli studiosi; e ciò a meno di non considerare quel di più che dagli stessi emerse e che ne ha caratterizzato il senso. 

Per un verso, sul piano storico, si è sostenuto che i civili, i contadini e gli umili che morirono per mano turca furono incolpevoli vittime di spregiudicate scelte geopolitiche. La presa di Otranto fu un fatto più politico che religioso; fu decisa per favorire l’espansionismo politico dell’impero turco e non per dare inizio all’islamizzazione italica; per giunta, fu agevolata dalla colpevole omissione delle monarchie italiche, variamente interessate al compimento di quell’invasione. Di qui la conclusione ideologicamente orientata che s’intende contestare. Si dice, infatti, che, non essendosi consumata alcuna guerra di religione, non si potrebbe parlare di martirio né civile, né religioso. E anzi, si aggiunge che il ricorso agiografico a dette categorie confermerebbe che la storia è compiuta dai forti sulle spalle dei deboli. 

A ben vedere, tuttavia, una tale conclusione non fa che replicare quanto faceva cantare Dario Fo nella celebre canzone Ho visto un re, magistralmente interpretata da Enzo Iannacci; in quel caso, in spregio alle protervie dei potenti, la povera gente ripeteva: “E sempre allegri bisogna stare / che il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale / diventan tristi se noi piangiam!“. Una tale conclusione, insomma, nelle sue implicazioni è tale da sminuire tutta quella vicenda popolare, plurale ed esistenziale, riducendola nel solito conflitto di classe trito e ritrito.

Per altro verso, sul piano occidentalista, si è sostenuto che la resistenza otrantina all’invasione turca rappresentò la prima e decisiva reazione italica al fondamentalismo islamico; che quell’opposizione scongiurò il pericolo dell’islamizzazione del Paese e che, in definitiva, l’eroicità di quel sangue valse a opporre le ragioni dell’occidente cristiano a quelle dell’oriente musulmano in uno scontro di civiltà sempre attuale. Di qui la conclusione, parimenti orientata, secondo cui la resistenza religiosa ha una valenza identitaria assoluta, tale da dimostrare la piena coincidenza dei valori occidentali con la fede cristiana. Una tale conclusione, tuttavia, ha il limite di appiattire la fede sui valori, soffocandone la ragion d’essere; e ciò con la disastrosa conseguenza lamentata da Papa Luciani in quella frase che da sola varrebbe l’intero pontificato: “Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole“. Lo stupore, infatti, viene prima di tutte le categorie; la capacità di stupirsi, che è propria del cuore dei bambini, è ciò che consente la conoscenza. Come spiegava Luigi Giussani, solo lo stupore conosce

In realtà, gli otrantini del 1480 non persero la propria vita né perché illusi dal potere politico — secondo la lettura storicista — né per un’astratta difesa dei valori cristiani — secondo la lettura occidentalista. Essi non agirono né perché strumentalizzati, né per “rabbia e orgoglio“, parafrasando il saggio occidentalista per antonomasia di Oriana Fallaci. Del resto, allora come ora, il fondamentalismo religioso non appartiene al proprium delle religioni, agendo piuttosto da detonatore di interessi politico-militari ben più divisivi; tanto più che, nella specie, è proprio la legge coranica a vietare quanto invece le milizie musulmane compirono a Otranto, nel senso che è severamente vietato obbligare con la forza i cristiani alla conversione all’islam e che l’alternativa tra la conversione e la morte è riservata ai soli pagani.

4. Più semplicemente gli otrantini del 1480 agirono per difendere ciò che massimamente amavano: la propria comunità territoriale, la propria fede religiosa, la propria libertà. Una tale determinazione, del resto, è all’origine del concetto di Stato elaborato in seguito. Questo non nasce per motivazioni astratte, alla stregua del “contratto sociale” di Hobbes, bensì per interessi concreti e condivisi; come affermava Agostino, per conoscere la natura di un popolo occorre considerare ciò che lo stesso massimamente ama. 

Ovvio che in una tale difesa gli otrantini furono segnati dall’intera gamma delle emozioni e sensazioni umane: dal coraggio alla paura. Come riferisce il cronista Laggetto, nella cattedrale “si ridussero molti cittadini ritirandosi tutti uni; e quivi facendo testa e proibendo alli turchi l’ingresso di detta chiesa, fu fatto un grande conflitto et macello così di cristiani come di turchi: che dall’una e dall’altra parte ne morirono assai“. E’ nella cattedrale che, “uniti insieme, era cosa straziante vedere le madri stringere le figlie al seno, li teneri figli abbracciati alli vecchi padri, li amici alli amici, e tutti fortemente rompere in pianti e col cuore pregare Dio con quel fervore, che solo sa destare l’ora estrema“. E’ in quel sacro luogo che, primo martire otrantino, venne ucciso l’Arcivescovo Pendinelli. Ed è innanzi alla cattedrale che si svolsero i combattimenti decisivi: “Tra le quali furno morti in quel giorno il signor Francesco Zurlo e il signor Giannantonio delli Falconi, combattendo sempre valorosamente tanto nella muraglia quanto nel riterare si facevano, armati della testa al piede con tronchi in mano, fermandosi avanti il piano della Madre Ecclesia, persuadendo sempre a tutti che là vogliono morire in servizio della fede di Cristo e del Re loro Signor; ed adunco quel giorno morette l’Arcivescovo di Otranto con tutti li preti“.

Eppure, se tutto si fosse risolto in quell’eroica resistenza e in quella cruenta sconfitta, la tragicità degli eventi avrebbe preso il sopravvento; lo sconforto, la paura e l’ansia di rivalsa avrebbero avuto la meglio.

5. Così invece non è stato. Narrano le cronache che gli 800 uomini sopravvissuti all’eccidio, ricevuta la terribile alternativa fra la conversione all’islam e la decapitazione, sperimentarono subito la differenza fra la paura e la letizia: l’una svanì e si risolse nell’altra. 

Riferisce il Laggetto che Antonio Primaldo, dopo avere “in persona di tutti” risposto al “Bassà” che “voleva più presto mille volte morire che rinnegare Dio e farsi turchi […], voltatosi agli altri cristiani, così parlò: «Fratelli miei, fino ad oggi abbiamo combattuto per defensione della Patria e per salvare la vita e per li signori nostri temporali; ora è tempo che combattiamo per salvare le anime nostre, per il nostro Signore, quale, essendo morto per noi in Croce, conviene che noi moriamo per esso stando saldi e costanti nella fede: e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la corona del martirio»“. I testimoni che deposero nel processo canonico, raccontarono di avere visto quegli uomini, “spontaneamente abbassata la cervice, e dicendo parole sante, venir trucidati e uccisi“. Alcuni aggiungono particolari che si fatica a immaginare con gli occhi distaccati dello spettatore: uno “li vide tutti volontariamente e con animo contento esporre alle spade le loro cervici“; un altro, che all’epoca degli eventi era ancora bambino, racconta che suo padre “non volle riscattarsi, ma volle piuttosto morire con gli altri suoi compagni, sebbene tuttavia avesse potuto riscattarsi con una certa somma di ducati, che egli stesso aveva nascosto in precedenza per la paura dei Turchi“. 

E’ tutta qui la differenza esistenziale fra l’eroismo e la santità. A certe condizioni si può anche maturare il coraggio di sacrificare la propria vita per un ideale ritenuto giusto; a certe condizioni lo sconfitto può anche esibire un’indomita fierezza dinanzi al patibolo; in nessun caso, tuttavia, è possibile rendere il cuore dell’uomo artificialmente lieto. Non si può imporre a sé o agli altri lo stupore. 

Ecco perché i fatti di Otranto sono irriducibili a una lettura solamente storicista o occidentalista. Per andare a morire “contenti“, non bastano i valori della Patria, dell’Occidente o della stessa Religione. Per trasformare la paura del martirio nella lieta fortezza della testimonianza non basta nemmeno una lunga ascesi etica o spirituale; né occorre essere moralmente degni. Perché tutto questo avvenga è invece sufficiente un istante di domanda e di grazia, come nel caso delle due semplici parole biascicate dall’egiziano copto nell’attimo prima di essere sgozzato in riva al mare: “Gesù aiutami“. Come spiegava Agostino, basta un istante di supplice confessio, di commosso riconoscimento. Nel martirio cristiano non c’è bisogno di sforzarsi per arrivare alla felicità, giacché la Felicità stessa si è abbassata, si è fatta incontro, si è umiliata, al punto che basta un piccolo momento di tempo, un solo istante per poterla riconoscere.

E la Chiesa si diffonde così, altrimenti è proselitismo per gente impegnata. Come ha detto Papa Francesco: “i Santi sono quelli che portano la Chiesa avanti!“.

Ecco perché, per concludere, la commossa devozione che lega il popolo di Otranto al popolo dei Martiri è ragionevole e certa. E ciò, anche se ai dotti e ai sapienti di ogni tempo può risultare incomprensibile.