Il defunto odiava i pettegolezzi è una sorta di documentatissima indagine sull’affaire Majakovksij. Serena Vitale, professore ordinario di Lingua e letteratura russa, ma anche scrittrice di vaglia, che già per Adelphi aveva ricostruito un “caso celebre” con Il bottone di Puškin, nelle oltre duecento pagine del volume smonta e rimonta sotto tutte le angolazioni possibili gli avvenimenti del mattino del 14 aprile 1930, quando Majakovskij si suicidò sparandosi un colpo di pistola al cuore nel suo studio, in un edificio di passaggio Lubjanskj a Mosca, dopo essersi visto rifiutare la proposta di matrimonio da parte della sua ultima amante, Veronika Polonskaja.



Il clamoroso avvenimento, e l’eccezionale partecipazione alle esequie del poeta, la ridda di pettegolezzi suscitati da quella morte così strana (a partire dalle dicerie presto diffuse sulla “roulette russa” di cui sarebbe stato vittima), le imprecisioni o addirittura i marchiani errori nei documenti ufficiali (come le stranezze nel rapporto balistico, o gli svarioni sul modello della pistola utilizzata), le diverse versioni circa i particolari della mattinata fatale — e dei giorni precedenti — raccontate a distanza di anni da quanti presero parte al dramma, in primis Veronika: nulla sfugge all’occhio attentissimo dell’autrice, che riesce persino a dare conto (cfr. p. 227) dell’ultimo scritto del poeta, e cioè lo schema della conversazione chiarificatrice che doveva essersi tenuta fra Majakovskij e la Polonskaja nello studio di passaggio Lubjanskj. Il foglietto, rimasto chiuso in una cassaforte del Museo Majakovskij sino al 1985, rivela lo struggimento del poeta, bambino troppo cresciuto, con il terrore di ritrovarsi solo e abbandonato, di perdere l’innamorata per cui ormai provava un’irrazionale possessività.



Serena Vitale ricostruisce nel dettaglio i rapporti fra gli attori del dramma, a cominciare dalla vita amorosa turbolenta ed affollata del poeta, sino al rapporto con i coniugi Brik: è stata infatti Lili Brik, già amante di Majakovksij, a presentargli la Polonskaja, con la precisa intenzione di distrarlo con un’avventura amorosa da altre passioni — sempre femminili, ovviamente — ritenute inopportune o rovinose. Sullo sfondo, la Russia dei terribili anni 1929-1930: l’industrializzazione forzata, la tremenda carestia, l’onnipresente polizia politica, la figura di Stalin che giganteggia, lo spettro della Lubjanka, o della Siberia (o peggio) per chiunque fosse anche solo sospettato di non aderire alle direttive del partito, e, insieme, il desiderio, anche questo quasi suicida, contrario a ogni buonsenso e a ogni legge del cuore umano, di rompere con usi e costumi piccolo-borghesi, come l’indissolubilità e la fedeltà entro il matrimonio. 



In questa situazione fluida, spesso sconcertante, in una realtà in cui era difficile sapere con certezza con chi si avesse a che fare, chi fosse amico e chi nemico, quale fosse il rischio nell’esprimere le proprie convinzioni, in cui si stavano, per così dire, facendo le prove generali per il terribile totalitarismo degli anni Trenta, è chiaro come si rincorressero le voci più disparate sulla morte del poeta, prontamente tacitate dal governo. 

Molto più banalmente, e realisticamente, Serena Vitale conclude: “A un ultimo interrogativo non daremo risposta: come mai, perché Veronika Polonskaja non ruppe ogni rapporto con il ‘dispotico’ amante che ormai le rendeva la vita impossibile con la gelosia, l’eterna cupezza, il morboso attaccamento, perché non lo mandò definitivamente al diavolo (…)? Non vogliamo unirci al coro dei pettegolezzi, avanzare l’ipotesi che l’epoca sembra imporre: Nora controllava Majakovskij per conto dell’Ogpu” (p. 230).

Spira, da queste pagine, una profonda partecipazione emotiva, una simpatia, nel senso etimologico del termine, fra l’autrice e il suo oggetto di studio. E questo senso di umana pietas viene trasmesso anche ai lettori, che, una volta presa visione (pp. 231-240) della possibile, plausibilissima, dettagliatissima, ricostruzione degli avvenimenti, anche minimi, che precedettero il fatale mattino del 14 aprile 1930, non possono non pensare con amarezza alla frase, ironica e disperata, del poeta: “I cavalli non si suicidano perché essendo privi del dono della parola non possono avere ‘franche spiegazioni’ fra maschi e femmine”. E, soprattutto, resta, indiscutibilmente nello stile del poeta, il suo biglietto di congedo (pp. 103-104): “Non incolpate nessuno della mia morte, e, per piacere, non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava. (…) Come si dice –/ l’incidente è chiuso, / la barca dell’amore si è schiantata/ contro l’esistenza quotidiana./ Io e la vita siamo pari,/ e a nulla serve l’elenco/ dei reciproci dolori,/ disastri,/ offese./ Buona permanenza al mondo”.