«Per quanto tu ragioni, c’è sempre un topo — un fiore — a scombinare la logica». È il 1982, il libro è Il franco cacciatore, e l’uomo, il poeta che per un istante recede dalla sua logica sempre più cinica e in apparenza stringente è un Giorgio Caproni in cammino verso la sua ultima stagione.

Anni di piombo, quelli in cui Il franco cacciatore matura, gli stessi anni in cui Mario Luzi pubblica Al fuoco della controversia, proprio nell’anno-simbolo 1978, e in cui alcuni giovani che non ne possono più — giovani come Giuseppe Conte, Roberto Mussapi, Milo De Angelis — cominciano a urgere il bisogno di dire una realtà più reale, di dire un realismo davvero realista, non solo degli oggetti, ma della carne e dello spirito. Anni confusi e di fervore, di una confusione e di un fervore forse all’epoca sentiti passeggeri e non, come oggi paiono, spie di una civiltà in crollo obliquo ma inesorabile. Anni di piombo e confusione in cui un altro grande del secondo Novecento italiano, Vittorio Sereni, vive medita ed elabora il suo libro di fine corsa, Stella variabile, che vedrà la luce nel 1981, due anni prima della sua morte. 



Allievo di Antonio Banfi, Sereni — dopo gli esordi in modo ermetico di Frontiera (1941) e la prova a mezzo guado di Diario d’Algeria (1947) — aveva raggiunto con Gli strumenti umani (1965) la sua voce più propria, quella di un continuo persistente ragionare in versi, di una continua correzione a voce alta del suo incontro con le cose. Una poetica degli oggetti, certamente, ma in fondo, commenterà Lanfranco Caretti, «sempre lo stesso libro», o meglio, lo stesso autore, «lo stesso disarmato ragazzo di Frontiera e il prigioniero murato e immobile di Algeria». Diverso è l’uomo, certo: maturato in età e in esperienza, se la sorte lo vede dirigente di una realtà come la Mondadori che proprio in quei tempi si avvia a diventare un colosso industriale. 



Eppure, come ogni uomo che realmente viva e maturi senza contentarsi di assistere al proprio trascorrere, Sereni porta con sé e con la propria poesia quel «ragazzo disarmato». E grazie a lui, forse, la poesia degli Strumenti umani e quella di Stella variabile conserva — pure nel suo andamento sempre a mezza strada tra borbottio espositivo e icasticità finale — un senso di incombenza delle cose che nei momenti più felici, più artisticamente riusciti, rendono il ragionamento, e la lingua in cui si esprime, non precedenti e definitori, ma susseguenti e interrogativi, anche quando si risolvano in sentenza, perché — come sappiamo dall’Eliot dei Quartetti — la poesia è «inginocchiarsi dove la preghiera ha funzionato» e perciò ogni parola che davvero catturi l’oggetto non può che divenirne strumento di domanda.



Così, anche nella descrizione approssimante e via via più precisa delle contraddizioni — quelle sub specie aeternitatis dell’uomo, quelle storiche e contingenti della società italiana — emerge nei versi sereniani il senso di un pericolo imminente. E se proprio il suo amico Mengaldo può dire con buone ragioni che Sereni è un «poeta dell’insicurezza», lo è altrettanto che quella stessa insicurezza è in realtà la spia di un pericolo nel senso proprio del termine. Di un passaggio, cioè, di un’apertura dell’essere negli oggetti che Sereni non cesserà mai — per indole e per formazione esistenzialista — di sentire, finché, nell’avanzare degli anni, anche l’imminenza della morte — di cui la sua poesia è piena e di cui adesso diventa protagonista — è spazio per una di quelle sentenze interrogative.

Due poesie, poste una dopo l’altra non lontane dal limitare di Stella variabile, ce lo mostrano, nel passaggio tra un desiderio di farsi giustizia — da sé e di sé — alla percezione che questa giustizia è una voce altra che non chiamandoci senza giudicare ci disarma.

Ogni angolo o vicolo ogni momento è buono
per il killer che muove alla mia volta
notte e giorno da anni.
Sparami sparami – gli dico
offrendomi alla mira
di fronte di fianco di spalle –
facciamola finita fammi fuori.
E nel dirlo mi avvedo
che a me solo sto parlando.
                                     Ma
non serve, non serve. Da solo
non ce la faccio a far giustizia di me.
(Paura prima, da Stella variabile)

Non ci si fa giustizia da sé, no. E nemmeno di sé. Se non che, improvviso, a volte il mondo smette di essere simulacro e si fa vero e chiama. Discreto, a ora insolita, talvolta il mondo, quel mondo così cupo e sordo che attraversiamo, cerca e brama te, proprio e solo te, ti chiama e ti corrisponde con la sua voce delicata, mentre intorno nessuno se ne accorge, ti «disarma»:

Niente ha di spavento
la voce che chiama me
proprio me
dalla strada sotto casa
in un’ora di notte:
è un breve risveglio di vento,
una pioggia fuggiasca.
Nel dire il mio nome non enumera
i miei torti, non mi rinfaccia il passato.
Con dolcezza (Vittorio,
Vittorio) mi disarma, arma
contro me stesso me.
(Paura prima, da Stella variabile)

È un’opzione, ascoltare la voce che chiama, volerla sentire e ascoltare, disarmarsi. È l’opzione tra l’odio e l’amore, tra la negazione dell’essere e la sua domanda: non un’opzione da testa o croce, ma l’opzione tra l’ammettere e il non ammettere quella strana comunione con le cose che a volte ci prende, improvviso e inatteso come un appuntamento a ora insolita. Un appuntamento che è l’inizio di ogni vera rivoluzione. 

[…] «Ma è giusto,
fai bene a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all’altra
cosa che si fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le fa splendide,
rara come questa mattina di settembre…
giusto di te tra me e me parlavo:
della gioia».
           Mi prende sottobraccio.
«Non è vero che è rara – mi correggo – c’è,
la si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest’ora di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli straziava,
un’arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno di una vacanza.
                                            Potrei
con questa uccidere, con la sola gioia…»

Ma dove sei, dove ti sei mai persa?

«È a questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione»
dico alla vetrina ritornata deserta. 
(Appuntamento a ora insolita, da Gli strumenti umani, 18-41)