L’io umano è in crisi. Ha perso i suoi riferimenti fondamentali. Tutti d’accordo. Nessuna novità. Allora, da dove partire? La cosa più logica sarebbe mandarlo dallo psichiatra, in un tentativo di fare l’analisi dei suoi antecedenti biologici, sociologici o psicologici. In una parola: identificare le forze che lo condizionano e implementare una terapia per arginare le conseguenze.
Don Luigi Giussani preferisce, invece, andare dallo “storico”. “L’io, così come lo conosciamo noi, dov’è nato?”, si chiedeva. “In Abramo!”, rispondeva. Allora torniamo ad Abramo per identificare i tratti del vero volto umano così come sono arrivati a noi tramite la cultura ebraico-cristiana.
Ma, in che senso si può parlare di “nascita” dell’io in Abramo, cioè, verso il 1800 a.C., quando l’uomo era sulla terra ormai da parecchi secoli? Tra l’altro, non è vero che l’uomo è religioso sin dall’inizio, da quando l’uomo è uomo? Certo, ma quell’uomo “era incapace di dare del tu al fato”, come afferma Giorgio Buccellati, noto archeologo della Mesopotamia del terzo e secondo millennio avanti Cristo.
Per i mesopotamici, il mondo dal quale si è staccato Abramo, il fato restava una realtà inerme, una sorta di forza interna della natura che poteva essere “controllata” unicamente tramite un’appropriazione razionale di un universo predicibile. Dal fato non si aspettava nessuna comunicazione. Si “esprimeva” tramite la sua prevedibilità, attraverso le leggi che reggono le dimensioni orizzontali e verticale del reale, cioè la natura delle cose e il loro destino. Gli dèi? Non erano che finestre aperte a quel fato. Frammentando l’universo predicibile si riusciva a controllare meglio la realtà e le leggi che la reggono: giustizia, forza, fecondità, salute…
Il primo che ha dato del tu al destino è stato Abramo. Perché il Mistero si è fatto vivo in una chiamata situata nel tempo e nello spazio. D’allora l’io si capisce in rapporto col Dio vivente, un Tu imprevedibile che esprime una Sua volontà molto concreta, non controllabile. L’io si capisce in un dialogo reale col Mistero fattosi vivo nella storia, non più in un tentativo solitario di appropriarsi delle leggi che reggono l’universo prevedibile.
La libertà dell’uomo, allora, diventa responsabilità, risposta a una chiamata e al compito che quella voce assegna alla propria vita. Non c’è più cosa, tempo o spazio, inutile. La promessa che Dio fa ad Abramo, l’attesa di compimento che fa scattare, segnano una concezione lineare del tempo, in contrasto con la percezione ciclica che aveva il modo religioso mesopotamico. Con Abramo comincia una storia, con delle tappe significative che si protendono in avanti. La promessa è una discendenza ed è fatta alla discendenza: da Abramo in poi l’io si capisce all’interno di un popolo che veicola la speranza degli uomini.
Da tutto quanto detto, diventa chiaro che non è possibile capire Abramo studiando i suoi antecedenti biologici, sociologici o psicologici. Questi non spiegano il filone che è partito da lui. Ci vuole dare lo spazio all’avvenimento della rivelazione di Dio nella storia. Ci troviamo di fronte ad un sorprendente incrocio di natura e storia: l’io si capisce a partire di un avvenimento storico.
È importante osservare subito che questo incrocio di natura e storia è difficilmente sopportabile per la ragione moderna. Infatti, Kant, Lessing e altri “padri” dell’Illuminismo europeo sono partiti con la pretesa di arrivare a descrivere la natura dell’io a partire del solo uso della ragione, tralasciando esplicitamente una fede storica, il cristianesimo, nella cui tradizione spirituale si riconoscevano ancora.
L’alternativa, dunque, è chiara: continuare con un’analisi che si è mostrata fallimentare o tornare come facevano tutte le mattine i primi discepoli a cercare Gesù, il vero “discendente di Abramo” (cf. Gal 3,16), con cui diventavano più se stessi. Solo in questo modo si può riguadagnare una comprensione nuova delle mosse del proprio cuore, così strane alla coscienza moderna. I battiti del cuore si leggono con chiarezza nuova come nostalgia di un Tu che ha stabilito un rapporto storico con la sua creatura. Appunto, non “cosa è questa mancanza” ma “di chi è mancanza questa mancanza” (Mario Luzi).