A chi mai potrebbe venire in mente di parlare di religione e fede, ragionando di un uomo come Giuseppe Verdi, da tutti ritenuto, se non ateo, quanto meno molto tiepido nei confronti della Chiesa e della devozione? Solo a chi Verdi lo conosce molto bene: non per frequentazione, ovviamente, causa motivi di anagrafe, ma per essere cresciuti al suono del “Va pensiero”, delle ouverture di “Traviata”, della Marcia trionfale di “Aida”, del “Si, vendetta” di “Rigoletto”. Chi, come il sottoscritto, don Adriano Contestabili e il maestro Corrado Medioli è nato nei dintorni del Cigno, da bambino sentiva, in casa, dal giradischi (all’epoca non c’erano i Cd o gli Mp3…) le arie verdiane. Non c’era spazio per le canzonette e all’osteria c’era sempre qualcuno che fischiettava — o cantava, addirittura, quando il lambrusco superava una certa soglia — “Si ridesti il leon di Castiglia” o, spingendosi oltre le facoltà di un tenore improvvisato, “Celeste Aida”.
Così, attraverso il linguaggio prediletto dal Maestro, ognuno di noi — che oggi abbiamo i capelli bianchi — imparava ad amare Verdi, allo stesso modo in cui Verdi amava la propria terra e la propria gente. È questo amore sconfinato a far comprendere come “Il Mago” (così lo chiamava affettuosamente Giuseppina Strepponi) abbia, comunque, sempre sentito forte il richiamo alla fede, al “mettersi in grazia di Dio”, come egli stesso scriveva, magari con un semplice segno di croce o, ben spesso, dando voce e armonia alle più belle preghiere del melodramma.
Ragionando del rapporto di Giuseppe Verdi con la fede e la religione, si arriva, da subito, a comprendere come, per il Maestro, si sia trattato davvero di una “mancanza di cui aveva pieno il cuore” e a spiegarcelo nel modo migliore è proprio egli stesso, attraverso il suo coro più famoso: il “Va pensiero”. La nostalgia struggente che pervade gli ebrei in esilio è qualcosa di molto personale, di intimo, che Verdi sottolinea, rende vivo, anima con la sua musica più bella, più emozionante, più toccante. È la nostalgia per ciò che aveva irrimediabilmente perduto: la moglie, i figli, il calore della famiglia e, per tutto questo, la fede. Nel “Va pensiero” il Maestro canta, da par suo, il dolore del distacco, il desiderio del ritorno, la ricerca di ciò che manca: ma se è consapevole che i suoi cari non li riavrà mai più, altrettanto capisce che potrà recuperare la consolazione della fede, l’abbandono alla Provvidenza, la grazia di Dio.
Di qui, dal “Nabucco”, quella che può essere considerata la prima, vera opera verdiana, è un susseguirsi di questa ricerca, tradotta in musica indimenticabile: a tratti affannosa come in “Rigoletto”, a tratti struggente come in “Traviata”, fino a quell’inno al Signore solenne e potente, “Immenso Ftah” di “Aida”.
Sarebbe troppo facile ricondurre la religiosità e la fede di Verdi alla splendida “Messa di Requiem” scritta per Alessandro Manzoni, all'”Ave Maria da Dante”, ai “Quattro pezzi sacri”: non era questo il modo di esprimere la propria anima prediletto dal Maestro. Era il melodramma il linguaggio che Verdi amava: il canto, l’armonia, il racconto di un’umanità in cammino verso il proprio fine ultimo, fosse il dramma o la tragedia; fosse il riscatto, anche attraverso la morte.
Ritrovò il Maestro la fede? Riempì quella profonda “mancanza ci cui aveva pieno il cuore”? Leggendo le parole dell’amico fidato Arrigo Boito, che rimase a lui vicino sino alla morte, verrebbe da dire di sì. Scrive Boito a Camille Bellaigue, ad un anno dalla morte di Verdi: “Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sua opere religiose, per l’osservanza dei riti (devi ricordarti la sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata). Sapeva che la fede è il sostegno dei cuori”.