Oggi, al Meeting di Rimini, ha luogo l’incontro-dibattito “L’uomo: essere di mancanza”. Partecipano i filosofi Eugenio Mazzarella, docente di filosofia teoretica nell’Università Federico II di Napoli, Carlo Sini, emerito di filosofia teoretica nell’Università statale di Milano e Costantino Esposito, docente di storia della filosofia nell’Università di Bari.
Anticipiamo un quesito di Esposito e la risposta di Mazzarella.
C. Esposito: Una delle più interessanti modalità in cui gli esseri umani avvertono questa loro “mancanza”, vivendola affettivamente, è l’esperienza del desiderio, quella in cui più di ogni altra il limite è in qualche modo confine, segno di una presenza che attrae e attende. La mancanza si compie non “colmandosi” o “risolvendosi”, ma fuoriuscendo continuamente da sé, eccedendosi, perché la sua “misura”, verrebbe da dire, è di natura infinita.
Oggi sembra affermarsi sempre di più una concezione della condizione umana nei termini di una “assoluta immanenza”, in cui la tensione dialettica tra finito e infinito viene tradotta nelle variazioni di potenza di una natura che è orizzonte a se stessa. O, se si vuole, elaborazione (e sublimazione) culturale dell’impossibilità all’auto-trascendimento. Una sorta di elaborazione del lutto… Verrebbe da chiedersi se il desiderio, come altre esperienze fondamentali dell’io, quali l’amore o la tristezza, la gioia o la paura o anche la più quotidiana inquietudine, siano adeguatamente decifrabili e risolvibili come semplici “passioni dell’anima” (o del cervello), o non siano anche una possibilità di fare esperienza della realtà come irriducibile alle nostre reazioni, e insieme come scoperta di un bisogno radicale, attraverso il quale si costituisce la nostra coscienza. La mancanza è un “segno”. Ma soprattutto, di che cosa essa è segno?
E. Mazzarella: Una volontà d’immanenza, di tenersi e condursi cioè in proprio nel mondo, senza dipendere da nient’altro che dall’autogoverno di sé, è certamente il mainstream della modernità. Almeno di quella dell’uomo occidentale europeo; e transitivamente del modello che il suo successo storico-universale, mediato dalla scienza-tecnica, sta offrendo al mondo della globalizzazione. Una volontà che è anche un’etica; prima, patrimonio d’élites intellettuali che hanno aperto al moderno la sua strada e la sua specifica consapevolezza storica, poi costume sociale diffuso; oggi persino l’etica spicciola, un afferrare l’attimo al supermercato, leggibile nell’individualismo consumistico di massa. Un’etica dell’immanenza che si è fatta carico tra l’altro di far apparire anticata, questione al più devozionale di un bisogno privato, ogni apertura alla trascendenza. Forte dei suoi successi, procuratigli dalla scienza-tecnica, l’individualismo prometeico moderno ha provato a scrollarsi di dosso, una volta per tutte, la fragilità sempre sentita nei confronti della natura e della storia dalla vita, persino nei suoi individui meglio riusciti.
E questo grazie ad un tentativo di surrogare del tutto la compensazione religiosa, l’individuazione di un senso all’esperienza del venir meno saputo della vita a se stessa nel sentimento di un’appartenenza a qualcosa più grande di noi, con la compensazione tecnica, con un attivismo fabbrile di un’intelligenza dell’appartenenza alla natura che pensa di poter gestire ormai in proprio termini e condizioni di quell’appartenenza.
Non sembra più esserci alcun bisogno di una fidatezza cosmologica di uomo e mondo, al di là del polemos che la struttura, che si faccia dialogo personale, di un arco dell’alleanza tra Cielo e Terra posto sulle nubi. Il diluvio per l’uomo della scienza e della tecnica è questione di pura meteorologia, con annessi e connessi: dalle previsioni del tempo all’emergenza clima. Grazie alla tecnica la nostra natura di essere-di-mancanza pare poter bastare a se stessa, filare da sé il senso della sua azione, senza alcun bisogno di un’integrazione di senso divina o cosmologica; un’integrazione figlia di un altro tempo, della consapevolezza di una dipendenza della vita che l’azione certo gestisce, ma non è in grado di eliminare in radice.
Nella scienza-tecnica come provocazione della natura che la riduce a voluto di un volere che crede di poterne aggirare la datità originaria, quello che viene meno, nell’immanentismo moderno dell’azione a se stessa, è la differenza cosmologica come sentimento della sproporzione tra il mondo che si è e il mondo che si ha, che si riceve – e certo non da sé.
E’ un demone antico, niente di nuovo sotto il sole. Il mito della torre di Babele, lo sguardo gettato sull’ente “più pericoloso” di tutti – l’uomo, l’ente che contrasta l’essere senza pietas – del coro dei Vecchi Tebani dell’Antigone ci raccontano per tempo questa tensione, fondamentalmente immaginaria, della compensazione tecnica a saturare lo scarto tra sapere di sé e potere di sé dell’uomo, a saturare il sentimento di dipendenza dal Tutto della compensazione religiosa; il venir meno nella hybris dell’azione della pietas della religio. Questa tensione immaginaria, dove l’immaginazione produttiva dell’uomo prova ad assolversi dalle sue condizioni, è da sempre l’essenza dell’irreligiosità, la tentazione compensativa assoluta: la superbia del serpente, appena uscito dalle mani della creazione, con cui egli si affaccia al mondo, e alla sua libertà. Tentazione che oggi crede di avere dalla sua l’argomento solutivo della scienza-tecnica come capacità dell’artificio di chiudere l’apertura indominabile del mondo nella prevedibilità persino costituente delle sue condizioni; ridando all’uomo nello spazio tecnico che si fa habitat naturale per lui, la sicurezza dell’animale nel suo ambiente, un’adattività non scompensata dal tarlo del disagio con cui è venuto al mondo.
Credo che a questa pretesa che ci consegna al perpetuum mobile di uno sfrenato attivismo, la protesta sia nel cuore di ognuno che si fermi un momento, e ascolti quel che gli manca e non dovrebbe, se avesse ragione il continuo daffare in cui la vita nel suo rovinio si distrae da una “calma” su cui non può mettere le mani e che tuttavia resta la sua nostalgia, la pienezza che dà radici alla sua indigenza. E’ il messaggio lustrale, purificatore da uno sfrenarsi dell’azione che non frena niente del nostro più intimo bisogno, che Luzi ci dà nella lirica che dà il titolo al meeting di quest’anno:
«Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che? / Rotta la diga / t’inonda e ti sommerge / la piena della tua indigenza… / Viene, / forse viene, / da oltre te / un richiamo / che ora perché agonizzi non ascolti. / Ma c’è, ne custodisce forza e canto / la musica perpetua… ritornerà. / Sii calmo».