“Leggendo la Bibbia scopro che il nome del mio progenitore era Abramo. Sembra che sia arrivato dalla città di Ur, nel sud della Mesopotamia. Abramo abbandonò il mondo sedentario di Ur — la prima civiltà creata dall’uomo — e divenne un vagabondo”. Con queste parole Chaim Potok (1929-2002), scrittore e rabbino americano (per la precisione newyorkese, nato nel Bronx), inizia la sua Storia degli ebrei, l’opera storica di uno dei maggiori narratori contemporanei con dedica in esergo ai Padri.
La nascita della civiltà a Ur e la rottura con quella civiltà è stato anche il tema suggestivo di una delle principali mostre del Meeting di Rimini 2015, Abramo. La nascita dell’io curata dall’archeologo di fama internazionale Giorgio Buccellati con il biblista Ignacio Carbajosa. Città e civiltà sono sinonimi sicché è facile osservare che il Disagio nella civiltà, titolo esatto della famosa opera di Freud (Das Unbehagen in der Kultur: quindi nella civiltà e non della civiltà), è cominciato presto. Molto presto. Addirittura sembrerebbe contestuale alla creazione della civiltà stessa: l’opera dell’uomo nella quale egli non sembra mai trovarsi troppo a suo agio. Una meta che esercita sugli individui due spinte opposte: amore e attrazione per i suoi innegabili benefici e timore per gli imponenti sacrifici (pulsionali) che essa impone all’io. Questa (in pillole) la tesi di Freud.
In un precedente lavoro (2012) dal titolo È veramente positiva la realtà? Dai popoli della Mesopotamia al popolo della Bibbia, Buccellati e Carbajosa già anticipavano il tema sviluppato dalla nuova mostra, riconducendo la civiltà mesopotamica al suo assioma fondamentale: “la prevedibilità della realtà nella sua totalità”. Nel testo di presentazione i curatori spiegano che a questo modernissimo assioma corrispose storicamente la nascita della prima megalopoli: “una vera rivoluzione urbana con una concentrazione umana e una organizzazione prima sconosciute. Le caratteristiche di questa nuova organizzazione sono che la persona non vale più in forza della sua identità, ma in forza della funzione sociale che assume (…) e che si interrompe il rapporto diretto con la natura. La città viene allora recepita come alienante e in contrapposizione con questa organizzazione sorgono le tribù. L’Israele biblico rifà le sue origini storiche a queste tribù”. La mostra ha (tra gli altri) il merito di riproporre con forza il tema dell’alienazione dell’io nella civiltà, stimolando a pensare le condizioni di una socialità non alienate. Abramo non è una “formica sociale”, ma un soggetto dentro a un rapporto.
Come molti altri, anche Potok annota che nella Bibbia le tracce storiche di Abramo sono labilissime e che neppure la cronologia dei patriarchi è sicura. Le tesi più in voga li collocano esistenti in un periodo molto lungo tra XIV e il XX secolo a.C., e ci informano che il testo che fissa il canone della vicenda di Abramo è successivo di oltre mille anni alla sua esistenza storica.
Tenere assieme i tratti della figura di Abramo che questa lunghissima tradizione orale ha tramandato non è un affare da poco, anche se in questo la tradizione successiva, arrivata fino a noi, ci è in qualche modo d’aiuto, avendo centrato la figura di Abramo sulla fede e sul sacrificio. Tuttavia neppure su questi aspetti è possibile affidarsi a letture univoche evitando le dissonanze. L’Abramo impertinente che nell’invocazione per i giusti di Sodoma tiene testa al “Giudice di tutta la terra” — “davvero sterminerai il giusto con l’empio?” — testandone nel contempo l’affidabilità, appare molto distante dal campione di obbedienza acritica così apprezzata da Maometto. Potok ricorda che “Maometto chiamò la propria fede islam, dalla parola araba aslama, usata nel Corano per descrivere il quasi sacrificio di Isacco da parte di Abramo”.
L’espressione “quasi sacrificio” nella sua indeterminatezza apre su un ventaglio di interpretazioni diverse tra loro, ciascuna delle quali potrebbe fondare una civiltà. L’islam moderno mantiene ad esempio la Festa del sacrificioesaltando come elemento di santità una fede ubbidiente fino alla possibilità dell’omicidio (e del suicidio come omicidio di se stessi). Mentre, all’opposto, un pensatore ateo come Jacques Lacan nella sua opera I Nomi del Padre (Einaudi, 2006), si dedica a capovolgere — provocatoriamente — l’interpretazione tradizionale. Il titolo e i contenuti sono quelli del Seminario del 1963 che risente di letture talmudiche e kierkegaardiane, e si avvale di un’interessante analisi dei due quadri di Caravaggio dedicati al sacrificio di Isacco (1601; 1605).
Lacan presenta Abramo come l’uomo — che con l’aiuto divino: l’invisibile presenza dell’angelo — vincendo un’immane lotta interiore, rompe con la tradizione dei sacrifici umani inaugurando l’era in cui neppure al “Giudice di tutta la terra” è concesso trattare l’innocente da empio. In questa luce Abramo sbalza dal ciclo routinario dei secoli che lo precedono non più come l’uomo del sacrificio, ma come l’uomo (nuovo) del non sacrificio.
“La forza di El Saddai (nome della divinità, ndr) — scrive Lacan — si prova anzitutto perché è stato Colui che ha saputo estrarre Abramo dalla cerchia dei suoi fratelli e dei suoi pari”, dandogli il coraggio di muoversi, anticonformisticamente, come “io”.