All’ultimo Meeting di Rimini c’era anche lui: alle spalle dei giovani attori che davano voce ai classici greci e latini, fino a Sant’ Agostino, in un percorso intitolato “Ritorna in te stesso”, venivano proiettate alcune opere di Pierantonio Verga. Chi ha curato l’allestimento dello spettacolo mi ha detto di avere scelto quelle immagini perché “in nessun artista contemporaneo emerge con così limpida e inquieta purezza la domanda del cuore dell’uomo che si apre alla realtà attraverso uno sguardo così stupito e una voce così intensa e commossa”. Quella voce si è spenta proprio mercoledì: mentre si chiudevano i battenti del Meeting, Pierantonio Verga finiva la sua battaglia con una malattia che lo aveva consumato e prosciugato e che però non gli ha impedito di proseguire la sua opera fino a pochi mesi dalla morte.
Giovanissimo allievo di Lucio Fontana negli anni sessanta, lui stesso mi raccontava di avere imparato proprio da questo grande maestro che quando si fa un quadro l’ultimo pensiero dev’essere un quadro, il primo invece dev’essere il mondo. Ai suoi giovani collaboratori, come riferisco nel mio libro Casa di vetro in cui descrivo la parabola umana e artistica di Pierantonio Verga, Lucio Fontana insegnava che non ci si doveva preoccupare di imparare a dipingere, ma ci si doveva preoccupare del mondo, di guardarlo dritto negli occhi: l’artista, diversamente dal pittore, diceva Verga, non fa il quadro, usa colori, pennelli e ogni altra cosa per inventare una lingua, cioè dare un nome al mondo. E, sulla scia di Fontana, Verga ogni volta che parla della sua opera non parla di materia o materiali: o c’è una lingua, o si scrive e riscrive il mondo, oppure non c’è il quadro, non c’è niente, diceva.
Diceva che occorreva guardare il mondo e guardare in alto, stare sulla soglia e vedere cosa succede dietro le cose. Fontana tagliava il quadro per questo, diceva Verga, non perché voleva andare oltre la pittura, ma perché voleva andare a scoprire quale promessa poteva dimorare oltre la terra, oltre il confine della tela e del mondo. Dopo Fontana si poteva continuare quella ricerca o spettacolarizzare l’arte, copiare all’infinito il gesto eclatante, abbandonare il linguaggio dei colori e della tela e abbandonarsi alla provocazione. L’arte contemporanea ha proseguito massicciamente su questa seconda strada e il mercato e la critica hanno inseguito questa facile e talvolta mistificante deriva; solo alcuni, invece, hanno raccolto la sfida di una ricerca che, consapevole della fine di un mondo, ha continuato a credere alla pittura come a uno spazio e a un tempo convocati insieme in un atto che era come una nuova nascita, un procreare, un diventare la terra come un germoglio, una speranza.
Pierantonio Verga è stato uno di questi e già alla fine degli anni sessanta un finissimo conoscitore e interprete dell’arte come Giovanni Testori se ne rese conto e scrisse parole di straordinaria ammirazione per le prime opere di Pierantonio Verga, che ha proseguito la sua ricerca, estetica e morale, con una determinazione e purezza quasi ascetica. Se Fontana fu il suo primo maestro d’arte, un’altra figura fu fondamentale per la sua maturazione artistica e umana: Verga era nipote del grande architetto milanese Mario Bacciocchi, uno che era andato a costruire e progettare anche negli Stati Uniti, e che aveva uno sguardo sulla vita e sul mondo che Verga assorbì nella frequentazione quotidiana con lui.
Anche questo mi venne raccontato da Verga stesso: Bacciocchi aveva incontrato un giorno don Orione, fu un incontro casuale, ma che segnò la vita dell’architetto e anche di Verga. Don Orione, sul marciapiedi di Milano, aveva visto Baciocchi con il figlio che aveva un grave problema alla gamba fin dalla nascita e non riusciva a camminare, aveva un’impalcatura di ferro lì intorno. Massimo si chiamava quel figlio. E quel figlio, disse don Orione su quel marciapiedi, da domani camminerà da solo. Il giorno dopo Bacciocchi cercò il prete perché Massimo camminava davvero. Bacciocchi fu quasi travolto da quel prete e per lui disegnò e costruì il Piccolo Cottolengo di Milano. E proprio lì portava il suo giovane nipote: fuggiva dallo studio e partiva con lui e la macchina piena di strumenti musicali, perché l’architetto era anche un musicista, e andavano a suonare lì nella casa del prete, per quei disgraziati che ridevano sempre quando arrivava l’orchestra. Si suona e si balla, diceva al giovane Pierantonio, e tirava fuori da una valigia dei pantaloni rossi lucidi, una camicia a quadri gialli e blu acceso dalla luce di un fulmine: diventava un mondo che faceva allegria a quegli storpi, a quei muti, a quelle facce attraversate da cataclismi e bufere, con teste schiacciate da un vento di disgrazia. Ma erano uomini come loro, come te, dicevano il prete e il Bacciocchi a Pierantonio. Quegli uomini non vedevano più Mario Bacciocchi e la sua fisarmonica, ma qualcosa attaccato alle loro mani, appeso ai loro occhi. Verga, mi diceva sempre, aveva imparato da loro, aveva visto con i loro occhi.
Ecco, l’opera di Verga nasce da queste due grandi e umilissime visioni. I suoi quadri, le sue case, i suoi angeli, le sue spighe e poi su a ritroso fino ai campi o alle finestre delle prime opere così ammirate da Testori, hanno dentro questa tensione: l’umiltà di uno sguardo che sta di fronte al mondo e ne percepisce il mistero presente; il desiderio di custodire attraverso un’immagine essenziale e sempre più carnale nella sua rarefazione estrema quella realtà incontrata; la restituzione di quella realtà per condividerla con gli altri.
Fare il quadro, per Verga, era una specie di battesimo, e anche in questo ecco la sua vicinanza a quel Luzi del Meeting: fare il quadro era dare un nome alle cose, alla spiga, al prato, alla terra e poi alla mancanza che in essi apriva al desiderio, all’attesa di un bene, di una casa per ciascuno di noi. I quadri di Verga, anche quelli proiettati sulla parete della sala del Meeting in cui accompagnavano le parole di Sant’Agostino, ci guardano dal loro silenzio: non spiegano, non fanno luce sull’amore e il dolore che attraversano, lo attraversano soltanto, se ne portano dentro l’odore, lo tirano in fondo, lo spingono in alto, lo allargano fino a farlo coincidere con gli occhi, a metterlo davanti al nostro, a diventarne padre e madre e custode. Le ultime sue opere sono quasi tutte case: case silenti, le case dell’angelo, la casa povera, la casa desolata, la casa sotto il cielo.
Il critico d’arte Stefano Crespi, negli ultimi anni dell’attività di Verga, ha sempre testimoniato in modo commosso una predilezione particolare per questo ciclo di opere verghiane, parlando di “scritture smarrite di libertà, vita, luce nel deserto dei linguaggi contemporanei”. Queste sue case, non sono più case, sono esseri fragili, cose di vetro, volti, braccia nel mondo, luogo trasparente in cui il tutto dimora, in cui tutto viene portato perché sia custodito e ritornato; la casa siamo noi, ferita aperta, voce.
Uno di questi quadri si chiama La casa del cuore: in uno scuro campo di nero che abbraccia la terra ed il cielo, che è il mondo della nostra fragile vita, c’è un’immagine grande, come di una casa sorretta sopra l’oro ed il blu. C’è una stella sopra la casa, forse è proprio l’ultima stella prima dell’alba, quella di cui parla Pavese e che accompagna chissà dove la luna. Ci sono due strisce di bianco, qualcosa che assomiglia a due pareti instabili e precarie, che in mezzo hanno un cuore appena accennato, stretto e allungato, quasi fosse compresso, schiacciato da chissà quali presagi e paure. Ma oltre la parete, fuori, nel campo grande di nero, nel mondo, c’è una croce che punta diritta sul cuore, a farlo certo, a farlo sicuro, a indicargli che si può gonfiare ancora, che la sua attesa non sarà inutile, che potrà costruire la sua casa, forte e grande come quella che sta solida sopra l’oro ed il blu. Che l’attesa è la certezza di un posto di caldo e di buono che un Dio fattosi Cristo ha pensato e voluto per noi. E’ questa certezza, è questa profezia che il quadro di Pierantonio Verga ci mostra, in un’epifania dolorosa e gloriosa, di cui dobbiamo essere grati e che diviene per noi eredità e compito.