La signora Pontreau, che giganteggia nell’ultimo dei romans durs di Simenon apparso per Adelphi (Georges Simenon, Il grande male, 147 pp., 18 euro), è una figura memorabile. Vedova, con tre figlie, orgogliosa e durissima, la vediamo, nelle prime pagine del racconto, intenta a gettare dalla finestra del granaio il giovane genero, incosciente perché preda di un attacco di epilessia, il “grande male” del titolo, appunto. Così, eliminato quel ragazzo debole e malaticcio, senza nerbo, incapace di farsi rispettare dai braccianti e dai famigli, la Pré-aux-Boeufs, la fattoria che il padre di lui, un ricco fattore normanno, ha acquistato alla giovane coppia, sarà interamente della vedova, Gilberte, la secondogenita della signora Pontreau. 



Fa paura la lucida determinazione, la padronanza di sé, l’autocontrollo, la dignità feroce pur nella miseria più nera di questa donna, una delle tante figure femminili terribili, o enigmatiche, che popolano i romanzi di Simenon. Lungi dalla pacatezza un po’ paciosa e manierata della signora Maigret, nei romans durs troviamo la soave ed eterea avvelenatrice del marito di La verità su Bébé Donge, l’impassibile protagonista — destinata a fare una brutta fine — de La casa sul canale, la solo apparentemente svagata rampolla di buona famiglia — con atroce colpo di coda finale — del Testamento Donadieu, la vecchia signora odiosa di Pioggia nera, le terribili Signorine di Concarneau, cui nulla sfugge della gestione domestica, e per le quali il fratello è una sorta di “prigioniero in casa”, l’esotica e contraddittoria entraîneuse dei Clienti di Avrenos, sino alla Madame Baron de Il pensionante, così materna da provare pena e pietà per il pensionante turco che le si installa in casa cercando riparo dopo aver ucciso in treno a colpi di chiave inglese un ricco uomo d’affari, al punto da andare ad assistere alla sua partenza verso i lavori forzati all’Ile de Ré. 



Una galleria di ritratti femminili, quella dei romanzi simenoniani, che difficilmente si cancella dalla memoria del lettore, e che forse trova il suo archetipo nell’indimenticabile madre dello scrittore, ultima figlia di una ricca famiglia fiamminga andata in rovina, cui è dedicata la Lettera a mia madre (se non l’avete letta, affrettatevi: la Lettera al padre di Kafka al confronto vi sembrerà acqua fresca). Ed è come se le protagoniste dei romanzi di Simenon riproponessero, come nella luce scomposta da un prisma, ciascuna un aspetto di quella personalità durissima e indimenticabile che lo scrittore attribuisce però, forse con la parzialità di sguardo di un figlio, alla madre, un apparentemente innocuo e fragile donnino capace però di atroci impuntature e di asprezze abissali. 



Così è la vedova Pontreau: una di quelle donne di provincia, che, per dirla con Flaubert, mantengono nel cuore quella certa durezza ereditata dalla callosità delle mani contadine dei loro antenati: così, da buona madre di famiglia, questa donna, alla morte del marito, ha saputo mantenere apparentemente intatta la dignità di una famiglia, rovinata però dalla smania dell’uomo, ricco mitilicoltore di La Rochelle, di diventare armatore. Eppure, benché le spese siano ridotte all’osso, benché in casa non si mangi quasi mai carne, benché i conti con il medico e i fornitori siano scoperti da mesi, la vedova Pontreau si presenta sempre, impassibile e ordinatissima, senza mai un capello fuori posto, impeccabile con il suo abito di seta scura e con i suoi guanti di filo grigio. La signora Pontreau non grida mai: nell’incipit del racconto la vediamo ristabilire l’ordine in cucina quando, durante le convulse giornate della mietitura, il genero non si sa imporre sui braccianti e la donna di servizio a ore assunta per qualche giorno osa contrapporsi alla patriarca. 

Stia zitta”, disse la signora Pontreau.
“Staro zitta quando mi pare e piace!”. 
“E invece deve stare zitta quando pare e piace a me!”.
Era un ordine così perentorio che, in effetti, dopo un ultimo debole mugugno, la donna tacque. (p. 15).

C’è qualcosa di allucinato, di irreale, nel racconto di Simenon, a partire dalle poche, impressionistiche pennellate con cui l’autore sa ricostruire la giornata del funerale del genero, in una vera cappa di afa: “Il caldo era tale che l’aria crepitava come durante un incendio, e il mare, in fondo ai campi, era uno sconfinato riverbero che feriva gli occhi” (p. 36).

Tutto andrebbe secondo i piani; ma c’è una donna, la domestica a ore, la Naquet, che forse ha visto qualcosa, o cui qualcuno che stazionava nei pressi del granaio ha riferito qualcosa. E questa donna, una poveretta mezza matta, insinua, borbotta, parla da sola, butta là delle mezze parole, alla droghiera, al medico, circa il fatto che lei sa, che può avere denaro, e molto, che anche lei potrà togliersi dei capricci. 

E, nel frattempo, la situazione in casa Pontreau precipita: la signora Pontreau viene invitata a presentarsi davanti al giudice, la secondogenita Gilberte, rimasta vedova, proprio lei, che era sempre stata florida e robusta, deperisce e si toglierà la vita; la figlia minore, Genéviève, commessa in una libreria, fugge con l’innamorato, che si trasferirà nelle colonie d’Africa, e rompe ogni rapporto con la madre; quanto alla prima figlia della Pontreau, Hermine, dopo aver cercato di combinare un matrimonio per corrispondenza con un vedovo che vive lontano per mezzo degli annunci personali di un settimanale per famiglie, scoperta dalla madre, sprofonda in una specie di seconda infanzia, completamente dipendente dalla madre. 

E così la vede, dopo alcuni anni, la sorella minore, tornata per una breve vacanza in Francia con marito e figli, bambini che guardano la nonna e la zia solo da lontano chiedendo alla madre, con fresca ingenuità: “Siamo arrabbiati anche con la zia Hermine?” (p. 147)

La ferrea determinazione della signora Pontreau, il suo quieto ma implacabile autoritarismo, il controllo onnipervasivo esercitato sulla realtà e sulle persone che la circondano sono così sintetizzati magistralmente da Simenon nella chiusa del romanzo: “Alcune galline si ostinano a rimanere nell’ombra calda del nido anche quando le uova si sono schiuse. Altre covano ancora con le ali un pollo ormai grande come loro” (p. 147).

E mentre Genéviève, la sola delle tre figlie che ha saputo recidere quel legame d’acciaio con la madre, a patto di perderla, si allontana con la famiglia che si è saputa costruire, a patto di tagliare i ponti con il passato, Hermine continuerà per sempre a trascinare la sua triste e grottesca esistenza grigia di figlia fuori tempo massimo.