Cicerone è stato nel mondo romano l’autore che più ha tematizzato l’esperienza dell’amicizia, con una connotazione anche civile e politica. Nel XII secolo, età che non a caso è stata definita ciceroniana, Aelredo di Rievaux riprende quel tema con uno stile pervaso dalla dolcezza che è l’anima di ogni rinascita e che non conosce ancora le forme cristallizzate del gotico. Senza perdere i tratti che la parola rivestiva a Roma, egli le conferisce i caratteri propri di una più grande intimità: l’amicizia diventa ” il riposo nella dolcezza di una carità divenuta reciproca”.
All’alba della modernità, tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, Francesco di Sales offre il suo contributo al pensiero sull’amicizia, considerandola come la guida indispensabile ad ogni persona nella situazione in chi è chiamata a vivere: nessuno può essere aiutato al di fuori di una relazione, di uno scambio e di una influenza reciproca.
Giurista, divenuto vescovo nella calvinista Ginevra, dottore della Chiesa e patrono dei giornalisti per aver inventato nuove forme per comunicare la fede, egli affida agli scritti la sua dottrina, fondata tutta sul cuore, che intende biblicamente come centro della persona in cui ciascuno incontra Dio. Molte delle sue lettere sono indirizzate a Giovanna di Chantal, con lui fondatrice dell’Ordine della Visitazione e soprattutto a lui legata da una reciprocità di affetti testimoniata dall’intensità dei loro dialoghi. Un esempio della forza sociale dell’amicizia depositata nella corrispondenza epistolare che, secondo Huizinga, non viene considerata dagli storici della civiltà occidentale in tutto il suo valore.
Alcuni stralci delle lettere inviate da Francesco a Giovanna tra il 1604 e il 1611 sono un indice evidente della loro amicizia: “Dio, mi pare, mi ha dato a voi. Ne sono più sicuro a ogni ora. E’ tutto quello che vi posso dire” (lettera 76). “Osservando come vi scrivo con qualsiasi pretesto, penserete che vi seguo in spirito: ed è vero. No, non sarà mai possibile che qualcosa mi separi dalla vostra anima: il nostro legame è troppo forte. La morte stessa sarebbe incapace di scioglierlo, perché è fatto di un materiale che dura eternamente” (87). “Non vi dirò nulla della grandezza del mio cuore nei vostri riguardi: vi dirò solo che è molto superiore a tutto quello che si può immaginare. E il mio affetto per voi è candido come la neve e più puro del sole. Per questo, durante questa lontananza, gli ho lasciato le briglie sul collo, permettendogli di correre a suo piacimento. Come si potrebbe dire quale consolazione debba essere, in Cielo, amarsi in un pieno mare di carità, quando i piccoli ruscelli di quaggiù ne possono procurare tanta?” (89).
“Avrò cura della mia salute quanto mi sarà possibile per amore di me stesso, e anche per amore di voi che così volete e che parteciperete a tutto quello che si farà di buono, come partecipate abitualmente a tutto quello che si fa in questa diocesi in quanto io ho, per la mia posizione, il potere di farvene parte” (97).
“Gesù è nostro: che i nostri cuori siano sempre suoi. Egli mi ha reso e mi rende ogni giorno di più, mi pare, o almeno, mi rende sempre più sensibilmente, sempre più soavemente del tutto, in tutto e senza riserve, unicamente, inviolabilmente vostro, ma vostro in Lui e per Lui” (102).
“Io provo una soavità straordinaria per l’amore che vi porto, e amo questo amore in un modo incomparabile. Esso è forte, ampio, senza misura né riserva, ma dolce, facile, purissimo e tranquillissimo; in una parola, se non m’inganno, è un amore che vive solo di Dio. Perché dunque non lo dovrei amare?” (103).