«Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili»: parole che ripetiamo ogni domenica, forse un po’ distrattamente, senza pesarle e senza renderci conto della loro potenza formidabile. Eppure la creazione — quest’idea scandalosa che il pensiero greco non ha mai potuto concepire e far sua e che si trova solo nella Bibbia — è qualcosa che dovrebbe riempirci di stupore, se solo ci fermassimo a considerarla. Non si tratta, infatti di credere che c’è un principio, una “causa prima” alla base di tutto ciò che esiste e chiamarlo “Dio”. Fin qui ci si può arrivare. Come osserva Basilio di Cesarea, nella prima Omelia sull’Esamerone, «molti […] riconoscono che Dio è la causa del mondo, ma una causa involontaria, come il corpo lo è dell’ombra e il corpo lucente del chiarore».



Però non è questo che dice il racconto biblico della creazione: «Egli non fu per questo semplice causa del mondo, ma nella sua bontà creò ciò che è utile, nella sua sapienza ciò che è bellissimo, nella sua potenza ciò che è grandissimo. Infatti Egli si è quasi mostrato come artefice che penetra la sostanza di tutto e armonizza le singole parti tra loro e dà all’universo omogeneità, accordo e perfetta armonia». La creazione è l’esito di un progetto, il frutto di un misterioso atto di volontà per cui Dio, il Tutto, vuole che esista qualcosa di altro da sé, e lo fa essere dal nulla.



Ora, questo atto di volontà si estrinseca in un giudizio: il Dio della Bibbia, infatti, non si limita a fare l’universo ma, mentre lo fa, lo giudica e lo approva incondizionatamente riconoscendone la bontà-bellezza, come per ben otto volte ripete il primo capitolo della Genesi («E Dio vide che era cosa buona»). Dio crea giudicando, ed è appunto la presenza di questo giudizio divino a distinguere il Dio Creatore da qualunque altra “causa prima” la speculazione filosofica antica e moderna possa avere ipotizzato. 

Questo è un punto essenziale che deve essere tenuto sempre presente per comprendere correttamente il senso dell’enciclica Laudato si’: «Il Creatore non ci abbandona, non fa mai marcia indietro nel suo progetto di amore, non si pente di averci creato (13) […] il mondo proviene da una decisione, non dal caos o dalla casualità, e questo lo innalza ancora di più. Vi è una scelta libera espressa nella parola creatrice. L’universo non è sorto come risultato di un’onnipotenza arbitraria, di una dimostrazione di forza o di un desiderio di autoaffermazione. La creazione appartiene all’ordine dell’amore» (77). In altre parole, a Dio il mondo piace, perché lo ha fatto bene: siamo agli antipodi rispetto al demiurgo malvagio e/o incapace della tradizione gnostica ma anche rispetto alla personaggio indifferente immaginato dai moderni, quel Dio che «fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso», come dice, con un’espressione folgorante, il protagonista dell’Uomo senza qualità di Musil.



Se è così, si capisce perché la parola giudizio, lungi dal fare paura, è la parola più bella, lieta e liberante del vocabolario cristiano; e perché non si dia in alcun modo, nella prospettiva cristiana, un’opposizione tra giudizio e misericordia (come oggi, talvolta, si rischia di pensare). Il nesso tra bontà e giustizia come chiave dell’azione creatrice di Dio è chiarissimo nei Padri. Così, ad esempio, lo mette a fuoco perfettamente Tertulliano polemizzando con l’eretico Marcione, il quale contrapponeva il Dio dell’Antico Testamento, duro e vendicativo, al Dio solo buono di Gesù Cristo: «Fin dall’inizio il creatore fu tanto buono quanto giusto. Le due cose sono procedute di pari passo. La sua bontà ha creato il mondo, la sua giustizia lo ha governato; essa già allora pensò che si dovesse creare il mondo per mezzo di buone cose, perché lo giudicò mediante un piano di bontà. […] Tutto ciò è stato disposto e ordinato da un giudizio. Ogni condizione, situazione degli elementi, ogni effetto, movimento, stato, origine, fine dei singoli elementi sono dovuti al giudizio del creatore, perché tu non creda che lo si debba considerare giudice solo da quando è cominciato il male e tu possa così accusare la giustizia a causa del male».

È nel giudizio del suo creatore che si fonda la bellezza del mondo: «bello» — dice ancora Basilio in altri due passi delle Omelie sull’Esamerone — «è ciò che è compiuto secondo le regole dell’arte e mira all’utilità dello scopo. Colui che aveva stabilito con chiarezza il fine delle cose create, con attenzione ai singoli postulati dell’opera sua, li approvò in quanto tutti e singoli concorrevano all’adempimento del fine […] proprio come un abile artefice che tesse l’elogio delle sue opere in ogni loro parte. […] E Dio vide che ciò era bello. La Scrittura non dichiara con questo che del mare si offriva a Dio un aspetto piacevole. Il Creatore non guarda con occhi umani le bellezze della creazione, ma contempla con la sua ineffabile sapienza gli esseri creati. Certo, è una veduta piacevole un mare biancheggiante, su cui regna profonda quiete; è piacevole anche quando, increspato in superficie da soavi brezze, presenta allo sguardo colori di porpora e d’azzurro: quando non batte con violenza la riva vicina, ma la stringe, per così dire, in pacifici amplessi. Ma non bisogna credere che secondo la Scrittura il mare sia apparso anche agli occhi di Dio così bello e piacevole: qui il bello si giudica con la ragione che ha guidato l’opera creatrice».

È in questa prospettiva, ben lontana da ogni forma di estetismo romantico, che va collocata — a mio avviso — un’altra affermazione-chiave dell’enciclica di papa Francesco: «Per la tradizione giudeo-cristiana, dire “creazione” è più che dire natura, perché ha a che vedere con un progetto dell’amore di Dio, dove ogni creatura ha un valore e un significato. 

La natura viene spesso intesa come un sistema che si analizza, si comprende e si gestisce, ma la creazione può essere compresa solo come un dono che scaturisce dalla mano aperta del Padre di tutti, come una realtà illuminata dall’amore che ci convoca ad una comunione universale» (76).

Non sarebbe male se, almeno qualche volta, invece di usare come tutti il termine natura, che è quanto mai ambiguo, dicessimo francamente il creato. Perché per un cristiano non è possibile pensare il mondo, la natura (e quindi anche l’ecologia) senza pensare Dio. Dio che fa il mondo. La realtà della creazione, il “peso” del suo mistero è tale che l’uomo non può correttamente pensare nulla, né un filo d’erba, né una lattina di birra, né le chiavi della macchina, né i tasti del computer che le mie dita stanno toccando in questo momento, né la foresta amazzonica, né le piantagioni di palma da olio, né i ghiacciai che si ritirano, nulla l’uomo può pensare senza pensare a Dio che lo fa (o fa chi lo ha fatto, l’uomo con i suoi capolavori e con tutte le sue malefatte; il che è un fare di Dio ancora più profondo e “divino”, se ci si pensa). E se ci penso, «la mia parola si arrende sopraffatta dallo stupore di questo pensiero», proprio come dice san Basilio. Ogni pensiero sulla natura che prescinda da questo stupore è inadeguato.