Il recente ritrovamento in Inghilterra di uno dei più antichi frammenti manoscritti del Corano, come già anni or sono una ben più cospicua quantità di antichi palinsesti nello Yemen, ha suscitato grande clamore mediatico. Ferventi apologeti vi si applicheranno per dimostrare la sostanziale uniformità delle prime redazioni del Testo sacro dei musulmani con la sua versione corrente, mentre con altrettanto entusiasmo gli scettici tenteranno di trovarvi ogni possibile conferma del contrario.
Tanto accanimento a proposito di un “testo” si può meglio comprendere tenendo conto che il Corano è l’esatto corrispondente islamico non tanto del Vangelo ma della stessa figura di Cristo: come per i cristiani infatti Gesù è il Logos, la parola di Dio fatta “carne”, così per i musulmani il Corano è la parola di Dio fatta “libro”. Le analogie sono numerose e sorprendenti, fin dalle origini: Maria, pur essendo vergine, concepì Gesù così come similmente Maometto, pur essendo analfabeta, proclamò il Corano; e si mantennero nel tempo: le dispute cristologiche che hanno tanto travagliato il cristianesimo delle origini trovano un corrispondente nella diatriba islamica relativa alla natura del Corano quale parola “creata” o “incerata” di Dio, e si potrebbe continuare.
Si evidenzia in tal modo che le numerose affinità fra l’islam e le altre religioni rivelate celano radicali differenze e che, paradossalmente, proprio nei punti che apparentemente sono più simili, un’analisi attenta rileva sostanziali difformità. Basterebbe considerare che la Bibbia è formata da numerosi testi di epoche e di generi differenti, attribuiti a vari autori, certamente sotto l’azione misteriosa dello Spirito, ma non per questo meno “presenti” nei loro scritti con la propria personalità e il proprio stile, o che neppure uno dei quattro Vangeli è stato redatto nella lingua parlata da Gesù per comprendere la distanza abissale che distingue la concezione della rivelazione presso i musulmani, secondo i quali il Corano è l’esatta espressione del dettato divino, trasmesso dall’angelo Gabriele a Maometto, il quale si è limitato a riferirla, senza nulla togliere né aggiungere o modificare minimamente quanto gli era stato comandato di riferire.
Sottoporre a un’analisi critica il Corano, quindi, può sembrare di per sé un atto dissacratore paragonabile, com’è stato detto, a dare un’interpretazione psicoanalitica della personalità di Gesù o, peggio, a mettere sotto il microscopio l’ostia consacrata per verificare se sia o meno diventata il corpo di Cristo. Del resto gli stessi musulmani hanno sempre dato prova di mantenere un rapporto quasi “sacramentale” con il Corano, preferendo rispetto a quanti lo studiavano piuttosto coloro che lo imparavano a memoria, lo recitavano rispettando le complesse regole della salmodia, lo ricopiavano in eleganti forme calligrafiche e impreziosendolo con decorazioni artistiche…
Da queste brevi premesse appare chiaro che il problema dell’interpretazione del Testo sacro è per i musulmani una questione delicatissima e quanto mai controversa fin dai tempi antichi. Che uno sforzo interpretativo fosse necessario è tuttavia confermato dallo stesso Corano che afferma in un celebre passo: “Egli è Colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del libro, sia versetti allegorici”, eppure il medesimo versetto, continuando, mette anche in guardia verso i pericoli che quest’opera può comportare: “Ma quelli ch’hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portar scisma e di interpretare fantasiosamente” e conclude attribuendo solo a Dio la conoscenza del significato autentico della rivelazione: “mentre la vera interpretazione di quei passi non la conosce che Dio. Invece gli uomini di solida scienza diranno: ‘Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore nostro!’. Ma su questo non meditano che gli uomini di sano intelletto” (3, 7).
Ci troviamo dunque di fronte a un paradosso, il paradosso di ogni interpretazione, che risulta inevitabile pur essendo nello stesso tempo, in qualche misura, impossibile o, per meglio dire, sempre parziale, provvisoria, incompiuta. Se da un lato, dunque, prevale l’atteggiamento che ritiene Dio solo quale depositario del senso autentico della Scrittura, dall’altro è altrettanto vero che la necessità di fornire chiarimenti e delucidazioni a proposito di un testo di così grande importanza finì comunque per imporsi immediatamente dopo la scomparsa del Profeta.
In generale si cercò di ricostruire un parallelo tra il testo coranico e i vari momenti della vita di Maometto e della primitiva comunità musulmana, anche per poterne stabilire la probabile cronologia e comprendere meglio il senso delle affermazioni e delle disposizioni in esso contenute, mettendone i vari passi in relazione con fatti ed episodi che furono definiti “motivazioni od occasioni della rivelazione”. Se ciò era indispensabile per le parti esortative e normative, per quelle invece edificanti e narrative erano necessari altri tipi di spiegazioni e si doveva adeguatamente tener conto anche delle differenze stilistiche legate a ciascun genere e alle sue finalità.
Quando apparvero i primi commentari, dunque, si trattò prevalentemente di opere di taglio linguistico e lessicologico che non tardarono però ad arricchirsi di numerosi altri contenuti nei quali si rifletteva l’erudizione dei loro autori, uomini spesso dai molteplici interessi. Per quanto dotti e talvolta arguti, costoro non intendevano anzitutto proporre una propria analisi originale del Corano, quanto raccogliere con perizia e completezza quanto avevano già proposto i loro predecessori, limitandosi spesso ad esprimere la propria preferenza per una o l’altra delle posizioni elencate, raramente aggiungendone una ulteriore e quasi mai avanzando qualcosa di alternativo o di sostitutivo che potesse pretendere di risolvere definitivamente qualche questione aperta…
Ne derivò un progressivo affastellamento di materiali eterogenei che progrediva senza che si ponesse il problema dei fondamenti, delle metodologie e delle finalità dell’esegesi. Quest’ultima, dopo aver dato i suoi frutti migliori nei primi secoli che furono quelli del “rinascimento” musulmano, si è in seguito impoverita, cristallizzandosi in forme canoniche che conservano tutta la loro autorevolezza, senza tuttavia riuscire a dar vita a nuove forme interpretative quanto mai necessarie per mantenere il nesso sostanziale fra la rivelazione nella sua forma originaria e le inevitabili trasformazioni determinate dalla storia. Negli ultimi due secoli alcuni coraggiosi pionieri di una nuova esegesi coranica hanno tentato varie vie di aggiornamento, ma con risultati parziali e fortemente osteggiati. Quasi mai, tuttavia, è stata raccolta l’ardua e delicatissima sfida di una revisione storico-critica del Testo, com’è ormai invece avvenuto negli studi biblici.
Questi ultimi, ad onta di quanti prevedevano effetti disastrosi, non hanno alterato i contenuti del messaggio, ma ne hanno anzi consentito una lettura più profonda e matura. Nonostante i recenti ritrovamenti, nel campo degli studi coranici temo che manchino ancora i presupposti indispensabili perché un’impresa simile sia almeno tentata. Le caotiche e drammatiche condizioni in cui versa gran parte del mondo islamico lasciano piuttosto prevedere che l’antico conflitto fra “testo” e “testa” sia destinato a permanere, se non ad aggravarsi.