“Palla al centro” dopo vent’anni di seconda repubblica. Si potrebbe forse riassumere così il cuore della riflessione riservata da Matteo Renzi quest’anno al popolo del Meeting di Rimini. Se, ha affermato il presidente del Consiglio, «l’Italia ha trasformato quella che chiamano seconda repubblica in una rissa permanente, ideologica», il risultato sarebbe stato di conseguenza un Paese «fermo, impantanato in discussioni sterili».
Renzi sapeva di parlare a un movimento ecclesiale tra i più importanti del post Sessantotto, una comunità di fede e azione culturale che ha fortemente caratterizzato, oltre in primis alla scena ecclesiale internazionale, anche la scena politica italiana degli ultimi decenni.
E probabilmente ha ritenuto di poter far breccia nella sensibilità politica degli aderenti di Comunione e liberazione, profittando pure della fase di ripensamento che sta attualmente attraversando il Centrodestra, con il seguente approccio: «Voi avete spesso applaudito gli uni e a volte anche gli altri. Ma ritengo che il berlusconismo e per alcuni aspetti l’antiberlusconismo abbiamo schiacciato il tasto pausa». Di contro, a suo dire, «le riforme che stiamo portando avanti sono un corso accelerato per riportare l’Italia in pari».
Sarà stato convincente? L’applauso indubbiamente è arrivato, forse è stato anche — in parte — quello destinato ai debuttanti istituzionali sulla scena di Rimini (anche se non si è trattato di una vera “prima”: Renzi fu già sul palco del Meeting nel 2008, insieme a Denis Verdini). Per alcuni della nuova intellighenzia giornalistica nazionale (Il Fatto Quotidiano ne è indubbiamente un esempio), certamente sì, sarebbe stato davvero efficace, come ha scritto caustico Davide Vecchi il 25 agosto: «Ma il popolo di Cl pare aver dimenticato rapidamente i propri figli. E con altrettanta rapidità ne ha trovato uno perfetto da adottare».
Anche la firma principe della medesima testata, il direttore Marco Travaglio, ha confermato il giorno successivo tale lettura: «Intanto non ha fatto il ruffiano — questa l’osservazione tagliente dell’allievo di Montanelli —, come di solito fanno tutti i politici che vanno lì in passerella a caccia di voti e, appena varcano i cancelli della Fiera di Rimini, si travestono da ciellini, devoti di don Giussani…».
Però Travaglio ha contestato apertamente a Renzi un altro tipo di errore, ovvero il voler sostenere, come sopra citato, che la seconda repubblica sia stata “una rissa ideologica permanente”: «Eh no — ha denunciato il direttore del Fatto —. Troppo comodo, troppo furbo, troppo paraculo: berlusconismo e antiberlusconismo sono due cose opposte ed è il momento che il presidente del Consiglio e segretario del Pd dica non solo ai suoi elettori, ma a tutti gli italiani e anche all’Europa, che cosa pensa di Silvio Berlusconi e di ciò che ha fatto in questi vent’anni».
Ha avuto forse in parte ragione Travaglio nell’evidenziare la ben nota prudenza di Renzi su Berlusconi, apparentemente diversa dagli attacchi alla baionetta della vecchia sinistra dem; sicuramente un cambio tattico di “verso” che lo ha aiutato, agendo tale narrazione attraverso le primarie, nel realizzare la sua personale “scalata” sul Pd in quanto figura di “rottura” col passato, appunto «quando voleva prenderne il posto all’insegna della rottamazione».
Travaglio però ha insistito: «Ma di B., che ci dice di B.?». E qui starebbe il (consapevole) errore del giornalista, cioè il suo disperato tentativo di inserire a forza Renzi nella parabola dell'(anti)berlusconismo, quando il politico fiorentino se ne è sempre voluto mostrare lontano quasi “esistenzialmente”. Per questo la sua risposta su “B.” non è mai pervenuta: Renzi deve apparire sempre “oltre”, dichiarando coram populo di non voler restare invischiato nei vecchi schemi comportamentali paralizzanti, anche semplicemente occupandosi di prendere posizione per o contro “B.”; Travaglio è probabilmente, a suo avviso, un uomo ancora al di qua del guado, un prodotto tipico di quell’epoca, sui cui schemi ha edificato la propria rispettabile figura professionale di intellettuale.
Affermando invece di voler a tutti i costi superare la logica della delegittimazione reciproca, il presidente del Consiglio avrebbe cercato di stabilire un rapporto diretto con coloro che, pur nutrendo sempre una legittima aspettativa sulla politica, faticano oggi a trovarvi le risposte sperate, confidando — Renzi — di riuscire ad attrarle non tanto su di un altro versante politico rispetto alla loro cultura di provenienza, ma di fidelizzarle a se stesso, come fiduciario individuale di un nuovo patto politico nazionale.
Il giudizio storico espresso al Meeting sembrerebbe confermato da Renzi nella sua intervista a Cazzullo sul Corriere della Sera il successivo 30 agosto. Si parlava di eliminazione della tassa sulla prima casa, un gesto in cui alcuni hanno visto una sua pericolosa sovrapposizione rispetto ai cavalli di battaglia del Cavaliere. Ha affermato Renzi: «Lo aveva proposto Berlusconi? Certo. Che male c’è? Questo approccio per cui se una cosa l’ha proposta Berlusconi allora è sbagliata è figlio di una visione ideologica».
La visione di Renzi su questo passaggio è sembrata piuttosto netta: «Il berlusconismo — ha affermato senza mezzi termini — è ciò che, piaccia o non piaccia, resterà nei libri di scuola di questo ventennio. Berlusconi è stato il leader più longevo della storia repubblicana. Ma ha sciupato questa occasione, perdendo la chance di modernizzare il Paese, sostituendo l’interesse nazionale con il suo. In questo senso il berlusconismo ha bloccato l’Italia».
Un’occasione persa, la cui responsabilità è stata parimenti attribuita da Renzi anche all’antiberlusconismo della sinistra italiana — per quanto egli si sia affrettato a sottolineare che esso sia da intendersi quale cosa molto diversa dall’Ulivo (e nonostante la concessione ai recalcitranti compagni dem del “gol della bandiera”: «Alla prova del governo la sinistra ha fatto nettamente meglio della destra …»).
Anzi, il segretario del Pd da sempre ha voluto considerare l’antiberlusconismo un’«altra faccia» dello stesso problema, ovvero «un movimento culturale e politico che non si preoccupava di definire una strategia coerente per il futuro, ma semplicemente di abbattere Berlusconi. Una grande coalizione contro una persona».
Così Renzi ha potuto prendere le distanze dal vecchio establishment del suo partito, marcare ancora una volta la propria “novità”, che consisterebbe soprattutto nel non voler cadere in una politica di pura opposizione, improduttiva perché negativa: una politica — va detto — che ha avuto indubbiamente il limite storico di rappresentare alla fine un’identità debole, perché costruita solamente sull’opera di continua delegittimazione del nemico (quindi non dell”avversario”) politico Berlusconi.
Per questo egli ha dichiarato serenamente a Cazzullo di non sentirsi antiberlusconiano: «Io non mi definisco contro qualcuno, mai. Non sono contro Berlusconi, ma per l’Italia: ero per l’Ulivo, non contro gli altri». Ed è tutto sommato difficile contestargli storicamente il seguente giudizio: «Comunque non è un caso se nessun governo del centrosinistra in quegli anni abbia avuto la forza di durare una legislatura. Perché? Perché stavano insieme contro qualcuno, non per qualcosa».
Sembrerebbe, in questa coda estiva del 2015, che la narrazione politica di Renzi abbia provato a mostrare una sua piena maturità: per questo il consenso che ha cercato di suscitare nei cuori delle donne e degli uomini di Cl è stato sollecitato soprattutto sulla sua persona e sul suo personale progetto. Lo si capisce bene da questa sua “pubblica confessione”: «Io non volevo venire al Meeting di Rimini, ma non per un fatto ideologico: i miei predecessori a Palazzo Chigi hanno sempre partecipato, anche i miei predecessori alla guida del centrosinistra in effetti, ma venivano considerando questa una importante piazza politica; per me è diverso: vi ho incontrato in una esperienza personale, profonda».
Il presidente del Consiglio alle persone di Comunione e liberazione si è voluto mostrare come il “nuovo che avanza”, consapevole che per il movimento il “nuovo” per vent’anni è stato sostanzialmente Berlusconi rispetto alle “pastoie partitiche” della prima repubblica, e contro le quali il leader del centrodestra ha costruito consenso affermando il suo personale modello di antipolitica neoliberista; e proprio per questo Renzi ha affermato a Rimini che «il Paese continua ad andare avanti nonostante la politica», mentre a suo avviso quel presunto “nuovo” appena passato avrebbe tolto l’ottimismo al Paese incatenandolo ad un “racconto odioso e litigioso che tutti i giorni ci fanno i talk show”.
Mai come nell’intervento al Meeting 2015, Matteo Renzi ha così avvertito la necessità di smarcarsi da tutto e da tutti, di attestare la sua differenza, non solo generazionale ma quasi “antropologica” con le categorie di pensiero politico del ventennio appena trascorso. Sempre nella sua intervista a Cazzullo lo ha confermato senza mezzi termini, quando ha sostenuto: «Ma io devo preoccuparmi soprattutto della maggioranza degli italiani».
Qui probabilmente sta il fondo della visione di Renzi, l’alternativa al girare a vuoto del sistema (anti)berlusconiano non potrebbe essere oggi altro che il Partito della Nazione, una sorta di “partito degli italiani” che dovrebbe oltrepassare gli steccati ideologici destra/sinistra della storia repubblicana, per esercitare una funzione politica, a suo modo di vedere, largamente rappresentativa, certo pragmatica e fors’anche decisionista; quella di uno che, sempre sul Corriere, si è sentito di dichiarare apertamente che il suo gruppo dirigente ce la farà, «senza guardare in faccia nessuno, senza rispondere a potentati o gruppi di interesse».
Un “Partito della Nazione” che potrebbe in futuro anche palesare la propensione a convogliare consenso ed energie del Paese su di un unico progetto, piuttosto che impegnarsi attivamente in un quadro funzionale di democrazia dell’alternanza (una nuova Balena Bianca, direbbero forse i detrattori?). Così per Renzi, il quale sta ancor oggi al governo con diverse forze di espressione moderata, «l’alternativa al Pd si chiama Matteo ma di cognome fa Salvini. L’alternativa a questo governo e a questo Pd non è un’improbabile coalizione a sinistra, non è un Lafontaine italiano, un Varoufakis, un Corbyn; l’alternativa è il populismo».
Cioè, cosa si intende? Si intende che non si intravede al momento un’alternativa pienamente democratica al Pd (a sinistra così come a destra) ma solo la Lega, con casuale (?) omissione dei Cinquestelle? O piuttosto si intende che il “Partito della Nazione” è un progetto che sarebbe rivolto da Renzi, oltre che alle varie famiglie di riformisti postcomunisti e cattolici democratici, anche alla parte da egli ritenuta “sana” del centrodestra italiano?
Questa insistente legittimazione di Salvini quale vero leader della sua opposizione farebbe forse pensare che Matteo Renzi stia oggi propendendo per la seconda ipotesi.