Cosa può avere a che vedere una critica al relativismo con la celebrazione della Pasqua ortodossa del 1981 al Monte Athos? Ad essere presente nella lunga autobiografia in forma di dialogo di Robert Spaemann, uno dei più importanti filosofi cattolici viventi (classe 1927, già professore a Stoccarda, Heidelberg, Monaco, Parigi, Lovanio, Rio de Janeiro e membro emerito della Pontificia Accademia per la Vita), non è solo la risposta a questa domanda, ma anche la statura umana di un grande uomo di pensiero: Robert Spaemann, Dio e il mondo. Un’autobiografia in forma di dialogo, Cantagalli, Siena 2014.



L’abate ortodosso che aveva accolto al monastero greco la comitiva formata da Spaemann e da assistenti e studenti dell’Università di Monaco non voleva consentire al gruppo la partecipazione alla celebrazione pasquale a motivo del fatto che, come cattolici, non  potevano fare la comunione ortodossa; cambiò idea solo quando Spaemann gli disse che erano dotati di torcia per recarsi in un monastero vicino. La strada, secondo l’abate, era troppo pericolosa da percorrere in una notte senza luna e lungo un sentiero roccioso con in mezzo un torrente.



Basterebbe solo questo episodio per dare l’idea del contenuto di un volume che è più della descrizione dello sviluppo cronologico di un pensiero: c’è sempre stato, nella vicenda del filosofo berlinese, un punto di svolta nel quale l’ideale cattolico diventa vita e non si inaridisce in una ripetizione di formule: quello che Spaemann aveva detto all’abate per far ammettere se stesso e i colleghi alla celebrazione era che la Chiesa d’Oriente poteva giocare un ruolo decisivo nella lotta al liberalismo e al relativismo che minacciano l’Occidente. Ma fu l’incontro di due umanità a risolvere la questione, attraverso un criterio secondo cui, come egli stesso si sarebbe preoccupato di spiegare nel 2014 in una lettera al curatore del volume, «non si dovrebbe chiamare pensiero un processo che non è vissuto» (p. 9).



Vivere (e ancorare il pensiero alla vita) significa, per il filosofo di Berlino, non tanto mettersi in relazione con la nostra soggettività, quanto un «destarsi» (p. 11) a una realtà che non dipende da noi e che, quindi, ci trascende. E, se non c’è vita (e pensiero) senza l’apertura alla realtà e se in questo rapporto consiste la verità, allora non si può nemmeno essere felici senza cercare la verità. Intuizione che Spaemann ebbe per la prima volta confrontandosi (da ragazzo) con quella sorta di perfezionismo antropologico nazista e che lo portò a vantarsi di essere considerato controrivoluzionario, se ciò significava rifiutare la riduzione del pensiero a «sforzo di autenticità» che «annulla se stesso» (p. 37) e l’ibernazione del passato attraverso la «perpetuazione museale» (p. 40): senza «venerazione di ciò che tramonta» (p. 41) non c’è, invece, nessuna possibilità per il moderno, ma resta solo quel modernismo tipico della Rivoluzione francese che Charles Péguy aveva descritto come la pretesa di costruire il nuovo facendo a meno dell’antico.

La stessa attività del dubitare non sarebbe possibile senza presupporre contenuti di pensiero che non mutano in quanto ancorati alla realtà; e Spaemann non esita a considerarsi «scettico» (p. 70), non nonostante, ma proprio in quanto, almeno in parte, dogmatico. Va letta in quest’ottica la sua vicinanza, durante gli studi all’Università di Münster (tra il 1945 e il 1952) e il periodo di consulenza presso l’editore Kohlhammer di Stoccarda (1952-1956), a pensatori che si sforzavano di mettere in luce il debito della modernità nei confronti della tradizione (Joachim Ritter, Gabriel Marcel, Henri de Lubac, Jean Daniélou, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Karl Löwith, Leo Strauss); ma anche la scelta di dedicare la tesi di dottorato in filosofia (1952) alla critica del visconte Bonald alla Rivoluzione francese e la tesi di abilitazione in filosofia e pedagogia (1962) alla controversia di fine XVII secolo tra Fénelon e Bossuet sull’amore dell’uomo a Dio: secondo Spaemann la questione se l’uomo dovesse amare Dio per Se stesso (Fénelon) o in quanto garante della propria autoconservazione (Bossuet) presupponeva quel concetto non teleologico di natura (introdotto in ambito giansenista e cartesiano all’inizio dell’età moderna), secondo cui l’uomo, non essendo naturalmente aperto a Dio come proprio fine, vi può tendere esclusivamente o rinunciando alla propria natura o “utilizzando” Dio per conservarla. 

Il suo libro del 1963 su Fénelon gli valse, nel 1969, la chiamata a successore di Hans Georg Gadamer sulla cattedra di Filosofia ad Heidelberg che era già stata di Karl Jaspers e apriva a una riflessione destinata a durare un trentennio. La questione della teleologia, ivi trattata, fu infatti al centro dei suoi interessi durante i vent’anni di insegnamento all’Università di Monaco (1972-1992), quando l’approfondimento della filosofia pratica lo avrebbe portato a non rifiutare l’etichetta di “realista metafisico” (se ciò significava ammettere «una realtà che non è realtà solo per me», p. 240) e a confrontarsi con la teorizzazione della riduzione del pensiero umano ad attività cerebrale: la scienza naturale «può descrivere come il processo del pensiero coinvolga determinate aree del cervello. Tuttavia che cosa venga pensato, questo non può illuminarlo» (p. 239).