La Galleria Tretjakov di Mosca, a non grande distanza dal centro della città, conserva dagli inizi del Novecento la splendida icona di Cristo Salvatore, dipinta da Andrej Rublëv. È uno dei frammenti residui dell’iconostasi di Zvenigorod, che risale agli anni successivi al 1410.
L’immagine è arcinota: si tratta di un volto di Cristo di una intensità unica, che cattura l’attenzione dello spettatore anche più distratto che lo incroci. Questo volto è l’esigua porzione sopravvissuta di una pittura implacabilmente divorata dall’usura del tempo, che ha cancellato i bordi della tavola lasciando intatto solo il fuoco centrale della Persona Divina rappresentata.
Lui ti guarda. Ti sta di fronte e ti scruta. Non ha parole: è tutto sguardo sgranato. Ti fissa nella spoglia essenzialità della sua compassione infinita, immobile nella luce di una pietà che non ha bisogno di scomporsi per dichiararsi ed essere percepita. Anche la bocca se ne sta sigillata. Domina il registro di una serietà austera, radicale, senza sconti, che esalta la sproporzione vertiginosa tra l’uomo peccatore e la perfezione divina che lo sovrasta. La misericordia di Cristo che salva qui è tutta condensata nel suo offrirsi come dono a chi umilmente la accoglie.
Il Cristo che il genio creativo del monaco Rublëv ci mette davanti non batte ciglio: attira e interpella senza cedere alla minima sensibilità patetica. Si mette imponente al centro della scena, e sta lì ad aspettare un cenno impacciato di risposta. L’apparente freddezza ieratica è in realtà il vertice di un’immedesimazione sovranamente amorosa dentro la condizione umana. L’amore che viene esaltato è l’amore divino che ama senza disperdersi. Va diritto al cuore. Ti assedia, chiede ascolto. Sempre ti sorveglia, ti precede senza tregua. Veglia su di te come un angelo celeste: è tutto dono, apertura, spazio ospitale.
Il Signore del mondo creato si è fatto servo con il suo manto destinato a diventare abito di gloria, di un blu denso e vigoroso come la profondità del cielo. Assumendo la nostra forma umana, ha accettato di scomparire ma per poi risorgere in vetta alla piramide di tutto ciò che esiste, e così fa nuove tutte le cose. Rinnova e purifica con il vento della sua potenza di grazia, in un silenzio sovraumano che ha lo stesso splendore del primo e più remoto inizio della storia del mondo.
Insomma, c’è un segreto che lambisce la sfera della straordinarietà eccezionale nel cuore dell’immagine così potentemente evocatrice di Rublëv. Miracolosa è la vicenda stessa attraverso cui il dipinto è arrivato fino a noi dal tormentato Medioevo russo che lo vide uscire dalle mani dell’artista. L’ho sentita richiamare in una recente omelia di don Emmanuele Silanos, vicario generale della Fraternità sacerdotale missionaria di San Carlo Borromeo.
Questa icona, che “riporta forse il ritratto di Gesù più bello della storia dell’arte”, andò perduta per molti secoli. Fu ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, nell’abitazione di contadini che l’usavano come asse di passaggio per accedere a una stalla, capovolta verso il basso, si direbbe completamente ignari della ricchezza preziosa che la tavola recava sulla sua fragile superficie. L’incredibile condanna al contatto con l’umidità della terra aiuta a rendere ragione dell’ampio dilavamento subìto dal colore originario. Ma per ogni autentico estimatore dello spirito religioso tradizionale della santa Madre russa, l’esito raggiunto, che ha risparmiato la sostanza più alta del messaggio iconografico veicolato, non può essere visto come il frutto di una casualità naturale. Appare certamente un fatto prodigioso che sia stato proprio e unicamente il volto di Cristo a conservarsi integro, a fronte della perdita di tutto il resto.
Non è comunque irriguardoso cercare di unire lo stupore ammirato con cui si sta davanti alla forza di suggestione dell’icona con una riflessione più ampia sulla grande storia collettiva di cui l’immagine è un segno clamorosamente eloquente. Ogni icona porta con sé un enorme valore di investimento emotivo: le si creava in funzione della preghiera adorante di cui le icone volevano essere elemento trainante, come accade ancora oggi per i devoti ortodossi che affollano le chiese d’Oriente — le donne velate — prostrandosi davanti alle immagini sacre, accendendo candele, facendosi ripetuti segni di croce, baciando senza pudore i dipinti-reliquia distribuiti in ogni angolo dell’edificio di culto. I segni esteriori della pietà popolare rimandano di per sé alla nobile solidità di una tradizione che viene da secoli per noi lontanissimi: l’icona è la punta affiorante del mondo che ha creato il modello e definito i canoni classici dell’arte religiosa dei nostri fratelli nella fede, figli della missione di Cirillo e Metodio.
Non sono un esperto di icone e non conosco se non superficialmente la storia del popoli balcanici e del mondo russo. Ma visitando le chiese di Mosca e degli altri centri dell’area ortodossa, o anche solo completando il percorso delle sale della Tretjakov, è difficile resistere alla sensazione che l’arte delle icone abbia toccato il suo culmine insuperato tra Tre e Quattrocento, al tempo di Teofane il Greco e, appunto, Rublëv. Attraverso un graduale sviluppo, con la gemmazione di varie scuole monastiche o di derivazione principesca e imperiale, da Costantinopoli trapiantandosi nel dominio in via di lenta affermazione della “Terza Roma” decollata al di sopra di Kiev, di Novgorod e di Vladimir, l’arte sacra ortodossa, sempre a scrupoloso servizio della liturgia della Chiesa e del culto privato dei fedeli, ha progressivamente fissato i codici di un’arte ritenuta più di ispirazione divina che opera creativa dell’uomo, artefice di una bellezza pallida eco della luce paradisiaca dell’altro mondo.
Sacralizzando i suoi modelli iconografici di altissimo prestigio, impregnati di un tasso teologico-agiografico affidato al gioco delle corrispondenze di raffinati simbolismi parlanti, l’icona ha coltivato il bisogno di replicare continuamente sé stessa. La fedeltà ostinata a una tradizione venerata ha scavalcato il valore della reinvenzione a partire da una prospettiva dinamica. Così la tradizione si è salvaguardata, ma è anche rimasta bloccata nei suoi schemi di sostegno.
Si può forse dire che l’arte medievale delle icone, una volta portata alla sua perfezione stilistica e di contenuto, non abbia conosciuto un suo Rinascimento orientale e non sia stata più capace di riformularsi creativamente in chiave moderna. Le icone del Sei-Settecento sono più una replica dei modelli antichi che non il frutto del loro ripensamento in funzione dei nuovi bisogni e dei nuovi linguaggi di una cristianità che ormai si stava aprendo alle forze anche più dialettiche e ostili dello sviluppo europeo; oppure sono un’imitazione di tipo subalterno che risente dell’influsso estetico occidentale contaminato con il vecchio gusto orientale di derivazione bizantina.
Forse per questo non c’è più stato un secondo Rublëv, né ci sono stati un Michelangelo, un Caravaggio o un Rubens in versione devota ortodossa. Non c’è stato il realismo dell’arte occidentale di matrice cristiana. Alla fioritura dei tempi d’oro della prima ortodossia greca e poi slava, è seguito un periodo di assestamento e di tutela gelosa della tradizione che ha accentuato il bisogno della difesa e ha divaricato, alla fine, la pietà religiosa dalle correnti della cultura, del pensiero e della società trascinati verso una crescita a lungo egemonizzata dai fulcri mediterranei e nord-atlantici della trasformazione che ha collocato l’Europa al centro del mondo.
Riaffiora così il problema cruciale dei conti che bisogna sempre tenere aperti tra la continuità della tradizione religiosa europea e l’emergere, al suo interno e in vivace dialettica con essa, dello spirito della modernità. Quando la confluenza con le richieste della modernità si fece irresistibilmente sentire anche nel cuore dell’Impero russo, erede degli antichi prìncipi cristiani della Moscovia sul confine orientale del continente europeo, in particolare dal Settecento in poi, il tessuto di base della cristianità ortodossa si trovò forse meno preparato, rispetto a quello della sua sorella latina, a reggere l’urto delle spinte di cambiamento, che urgevano una radicale inversione di logica.
Troppa acqua era ormai passata sotto i ponti, dai tempi del santo principe guerriero Alessandro Nevskij. Semmai il futuro stava dalla parte dei santi starets.