L’ultima fatica postuma di Sebastiano Vassalli è un condensato dei temi a lui cari: il rapporto, costrittivo e segnato dalla sopraffazione, fra il singolo e l’autorità, la Storia come fucina di ingiustizie, la prevaricazione del forte sul debole, qui in un tempo, il Seicento, comune al suo maggiore successo, La chimera, raccontato in un’ottica feroce, senza fiducia in una possibile provvidenza. 



In entrambi i romanzi, la protagonista è una donna, là la presunta strega di Zardino, Antonia, ragazza troppo bella e troppo libera, vittima dell’invidia e del pettegolezzo, qui Giulia De Marco, detta “Suor Partenope”, terziaria francescana, guida per la comunità dei “figli”, cui Giulia insegna a instaurare nella preghiera un rapporto profondo e autentico con Dio. Processata come eretica, costretta all’abiura, poi protetta dal cardinal Carafa, diventata amica in tarda età di Bernini, suor Giulia è il contraltare di Antonia, un’Antonia cui il tempo ha però dato la possibilità di crescere e capire il suo tempo. In lei ritornano alcune idee ricorrenti in Vassalli, soprattutto quella, ripetuta quasi ossessivamente nelle parole di Giulia, di una “religione dei preti”, leggi: di maschi, contrapposta a quella più autentica, pulsante di verità e di passione, della religione della preghiera, che tramite l’estasi, consente, soprattutto alle donne, da sempre marginalizzate, l’unione mistica con Dio. Dato questo assunto, più o meno opinabile, Vassalli sviluppa coerentemente il racconto, per quanto con alcune cadute e imprecisioni non da poco, come quando fa dire, a un cardinale (!) che l’unica forma ammissibile per la Chiesa ufficiale di comunione con Dio è “quella simbolica dell’Eucarestia” (p. 191, concetto ripetuto anche a p. 86); peccato che, al di là di quanto lo scrivente creda o non creda, non è possibile ignorare che — cosa che un cardinale sa benissimo — la comunione con Cristo nell’eucarestia non è per niente “simbolica”, ma, al contrario, materiale, autentica, e reale (a meno che qui non si stia insinuando che il cardinale stesso sia un incredulo).



Il romanzo è un punto di svolta nella produzione di Vassalli e possiamo solo immaginare come, se l’autore fosse vissuto, si sarebbe evoluta la sua narrativa: infatti, rispetto alla Chimera, la scelta di dare voce direttamente in prima persona alla protagonista consente di attutire il peso della lontananza temporale; e sebbene sia un poco forzato l’immaginario colloquio fra l’uomo del XXI secolo e la “bizzoca”, esso risulta funzionale al colpo di scena finale, quando il lettore comprende perché mai soffermarsi tanto sull’amicizia con Gian Lorenzo Bernini. L’immediatezza del linguaggio, naturale portato della scelta di dare voce diretta alla protagonista, però, ha come contraltare una certa farraginosità e ripetitività, quasi un incepparsi del ritmo narrativo nella sezione del racconto che corrisponde alla “terza vita” di suor Giulia, relativa cioè al suo crescente seguito come madre spirituale e alle prime persecuzioni: ma forse questo senso di sospensione e ripetizione è mimetico dell’attesa, spesso snervante, e dei lunghi tempi morti che Giulia deve sopportare quando viene, nei primi tempi, allontanata da Napoli. 



Il romanzo, poi, prende quota quando entra nel vivo della vicenda, cioè nelle pagine che hanno come oggetto la detenzione, l’interrogatorio da parte dell’Inquisizione, la costruzione delle false accuse e, infine, l’abiura. Ricorrono, se vogliamo in maniera un po’ ripetitiva e monotona, le accuse contro la chiesa “dei preti e degli uomini” che soffoca quanto di buono c’è nello slancio generoso e caldo del cuore femminile. Una contrapposizione di maniera, che si colora, a differenza di quanto accade nella Chimera, di una vena non tragica, ma tragicomica, specialmente quando la povera suor Giulia descrive la cerimonia dell’abiura: il popolo di Roma, cinico, disincantato ai massimi gradi, che di nulla più si può stupire, mentre viene data lettura delle accuse, non può che commentare, con somma noncuranza: “Embè, te possino” (…); “Ndò sta la risìa?”; “Tutte so’retiche” (p. 179), infiorettando queste uscite fra risa e schiamazzi. Tanto più spicca, per contrasto con cotanto esibito cinismo, la spinta ideale che anima Gian Lorenzo Bernini, lo scultore e architetto dei Papi, che la protagonista incontra ai tempi del suo furioso amore per Costanza, degna esponente di quella smania di modernità di costumi che Vassalli identifica con la poco elegante, ma icastica definizione di “puttanesimo” (p. 205). 

È qui, non nel racconto degli anni napoletani di suor Giulia, che il romanzo si anima, prende corpo e sangue, nella storia della passione di un uomo abituato a cercare l’assoluto nell’arte e che vuole perdersi in un grande amore in un’età per quei tempi ormai matura, tanto più per una donna sfuggente e incapace di comprendere, e men che meno di corrispondere, al suo sentimento. L’ambizione, scopertamente dichiarata (p. 281) dall’autore nel Congedo, che è insieme congedo del romanzo e congedo da tutta un’avventura letteraria, e dalla vita, è, attraverso la Napoli del Seicento e la Roma dei Papi, è quella di aver raccontato, con la sua cifra, attraverso le tappe costituite dalla Novara del vescovo Bascapè, la fine di Venezia, la Firenze degli artisti fra Otto e Novecento, quell’Italia dove, “nel bene e nel male… Ci è toccato nascere e dove tanti ancora dovranno vivere”.


Sebastiano Vassalli, “Io, Partenope”, Rizzoli 2015