Non passa giorno che non si parli di “diritti dell’uomo” o di “nuovi diritti” e, fino a qualche tempo fa, quasi ogni convegno sul tema non mancava di fare riferimento alle “magnifiche sorti e progressive” (per dirla con Leopardi) del “dialogo tra le Corti”. Il “dialogo” e le “Corti”, due termini uniti in un’espressione con il sapore di una felice metafora, che evoca un’atmosfera irenica, quasi di conviviale comunità, tra giudici di ogni Paese e di qualsiasi grado e funzione, che si uniscono in un ideale scambio comunicativo di conoscenze e ragioni, maturate nell’esercizio della giurisdizione e nella conoscenza dell’umanità — sostanza dei “casi vivi” giudicati – e possono così convergere nella tutela sempre più ampia di diritti ed esaudire i bisogni e il desiderio di felicità che ne fondano la rivendicazione.



Oggi, invece, si affaccia sempre più spesso l’espressione opposta, quella della “guerra tra le Corti”, perché sempre più frequente è la contrapposizione tra giudici comuni, Corti costituzionali, Corte di Strasburgo e Corte di Lussemburgo. Ad esempio, in una delle sue ultime sentenze la Corte costituzionale italiana parla espressamente di “predominio assiologico” della Costituzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in un’altra recente sentenza (sull’utilizzo di embrioni crioconservati) esclude che il tentativo di sollevare una questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale italiana rappresenti un rimedio interno che è necessario provare per adire la Corte di Strasburgo: ultimo screzio di tanti altri che si potrebbero menzionare. 



Il “dialogo” è diventato “guerra”, la comunicazione tra pari è diventata rivendicazione di una gerarchia tra giurisdizioni in conflitto, la “persuasione” attraverso gli “argomenti” è diventata “lotta” per l’affermazione di un “valore” sull’altro. Si sta infrangendo il sogno di chi voleva continuare a vedere nel “linguaggio dei diritti umani” lo strumento secolare di individuazione di “universali giuridici” che, in quanto fondati sulla “natura umana”, avrebbe consentito di ritrovare una “naturalità giuridica” comune tra  approcci laici e confessionali al mondo del diritto. Ci si è dimenticati che anche il “linguaggio dei diritti”, come ogni altra pratica umana, non è una “formula magica” con la quale risolvere sempre e in ogni luogo qualsiasi problema, ma è una costruzione immanente, dipendente dal contesto d’uso, che in altre situazioni storiche ha consentito conquiste che sarebbe oggi un peccato perdere solo perché si vuole rimanere pervicacemente attaccati all'”idolo” che ci siamo costruiti.



Il linguaggio dei diritti, infatti, deve fare i conti con il mutato contesto dell’epoca presente, che si caratterizza per una forte frammentarietà delle comunità e per una scarsa condivisione di valori di fondo (pluralismo sociale e culturale); una stretta interconnessione e rapidità di trasmissione degli effetti dell’agire giuridico nello spazio e nel tempo (globalismo o, meglio, “glocalismo”); una forte reattività, che determina estrema rapidità dei cambiamenti, loro instabilità e forte diversificazione locale, secondo processi di “accelerazione” e “de-sincronizzazione” dei cambiamenti, che avvengono a diversa velocità nelle diverse parti del mondo (pensate a cosa sono i diritti della donna nella maggior parte dei Paesi occidentali e cosa sono in altre aree del mondo). 

L’uso del linguaggio dei diritti in questo mutato contesto ha prodotto: un’attrazione inflazionistica di tutti gli aspetti della vita umana nell’ambito del “giuridico”, la cui caratteristica (rispetto al morale o all’etico) è quello di essere realizzabile coattivamente, cioè con la forza, con la paradossale conseguenza di  ridurre la libertà e correlativamente anche la responsabilità, che è sempre legata alla possibilità di scegliere, facendo di tutti noi degli eterni adolescenti; una visione dei bisogni nella prospettiva egoistica del singolo, anziché della comunità; l’oblio delle stesse “condizioni di fattibilità” della realizzazione coattiva di taluni comportamenti, quasi che il limite creaturale non esistesse più; un approccio emozionale al diritto, con una progressiva separazione del sentimento dalla ragione e con una riduzione di quest’ultima a mero espediente retorico, con cui giustificare a posteriori decisioni che si sono prese altrimenti sulla base di convinzioni ultime che restano sottratte al dibattito, con l’ulteriore conseguenza di provocare decisioni contraddittorie e ondivaghe, a seconda del variabile umore dei tempi, fino a far venir meno la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

Il superamento della deriva inflazionistica e il recupero di uno scambio comunicativo non solo emozionale, ma anche ragionevole — con il “cuore” nel senso ebraico, che vi vedeva anche la sede dell’intelletto — non possono che passare attraverso la ripresa di una discussione sui “fondamenti”, in modo da non perdere le conquiste che il linguaggio dei diritti ha consentito, in altri contesti storici, ma senza pervenire a quell’esito nichilistico verso il quale ci si sta inconsapevolmente avviando, distruggendo quel minimo di certezza, indispensabile alla sopravvivenza di qualsiasi ordinamento.

Ben vengano quindi convegni — come quello organizzato in questi giorni a Roma dal Centro studi filosofici di Gallarate — su “legge naturale” e “diritti umani”. Forse il riferimento alla “legge naturale” è uno strumento spuntato o è stato progressivamente ridotto a un “guscio vuoto”, ma in questo mutato contesto è già un risultato riprendere una seria discussione sui fondamenti dei diritti — non tutti fondamentali — e far convergere sul tema non solo l’attenzione dei giuristi, ma anche quella dei filosofi e dei teologi, perché la sfida attuale del “linguaggio dei diritti” ha bisogno di prospettive e visioni plurime e di un confronto di esperienze professionali e di studio che possano illuminare ciascuna, dalla propria disciplina, un aspetto della realtà.