Le prime notizie dell’ecatombe di oltre 700 persone alla Mecca in occasione della festa del sacrificio, Eid al Adha, le ho ascoltate alla trasmissione radiofonica La zanzara e comprendo che anche il semplice ricorso a questa fonte di informazione per commentare un fatto così drammatico potrebbe meritarmi una nota di biasimo, ancor prima di iniziare. Ma per me come per altri milioni di automobilisti le informazioni radiofoniche, in mezzo a giornate fitte di appuntamenti e impegni, sono spesso un prezioso spiraglio su quello che succede nel mondo. Se resta poi la forza per un approfondimento serale navigando qua e là, si vedrà. Intanto meglio prendere al volo “l’uovo di oggi” perché della “gallina di domani” non v’è certezza. La regola vale anche se “l’uovo” è avvolto da un packaging ridanciano perché si sa: “Chi ascolta La zanzara vuole ridere, ridere!”.



Mi riferisco alla puntata del 24 settembre, condotta — come sempre — con maestria da don Giuseppe Cruciani, il parroco del peggio “de noantri”, che prima lo suscita (il peggio) e poi lo benedice con gaudio, e da fra David Parenzo che tiene il conto delle malefatte del primo con la scusa di riportarlo sulla retta via, in perfetto stile Leporello con Don Giovanni.



L’impatto della notizia sulla giornata comunicativa fa sì che due parole, tra una goliardata e l’altra, non possano mancare. Inizia così un carosello di opinioni contrastanti che forse è non lontano dal rendere il disagio che la notizia della strage alla Mecca, e il ricordo delle altre pesantissime tragedie dal 1990 — quando i morti furono 1400 — a oggi, suscita in un cittadino europeo medio.

Tra la tesi di alcuni ospiti in trasmissione sulla superiorità culturale dell’occidente e quella del necessario (acritico) rispetto delle fedi in quanto fedi, il dibattito si incarta e anche quel “satanasso” di Cruciani, persa la speranza di mandare in onda qualche “mega sparata” dei suoi ospiti, si rassegna a commentare obiettivamente che l’idea di attribuire il disastro a un problema organizzativo, tesi ufficiale dell’Arabia Saudita, sostenuta con forza da Parenzo,  sia un po’ limitativa.



Il ruolo di spalla radiofonica di David Parenzo è noto, per quello Cruciani lo ha voluto: per “maltrattarlo” a piacimento in trasmissione e sollazzare gli ascoltatori più sadici (che non mancano). A me che, da Gesù a Freud, passando per Maimonide, Spinoza, Marx e Hannah Arendt, da Chaim Potok a Amos Oz eccetera, sono un estimatore del genio ebraico, la maschera radiofonica scelta da Parenzo fa tristezza, soprattutto per l’irrigidirsi del pensiero nel “cilicio” del politically correct che isterilisce ogni suo contributo, cosa che dispiace specie quando (e capita) la “spara” giusta.

Nel suo farsi portavoce della posizione saudita — che non coincide con quella araba, perché gli iraniani hanno protestato eccome, considerato che moltissimi dei pellegrini morti erano sciiti — Parenzo parte da una posizione culturale più evoluta di quella del conduttore e degli ospiti in studio, ponendosi come paladino del rispetto delle fedi. Ma si tratta di un rispetto che implica una sorta di acritica intangibilità: un sancta sanctorum dal quale il pensiero (critico) è tenuto fuori, magari protetto dalla privacy.

Si incontrano qui il rigorismo religioso e quello moderno dell’idolatria dei diritti, riassunto dalla frase: “la mia libertà finisce dove inizia la tua”, che se valesse anche per la libertà di critica (cioè di pensiero) decreterebbe il collasso all’istante dell’occidente come esperienza di libertà diffusa. Il punto di sintesi dei due fanatismi è il concetto di “sacralità” come definizione di un luogo impenetrabile dal pensiero e intangibile dalla ragione: come nel vecchio adagio “guardare e non toccare…”. È la gabbia (sacra) dalla quale le voci riformiste del mondo islamico vorrebbero liberarsi, invocando da più parti una riforma dell’islam.

Il disastro della Mecca è avvento su un punto del percorso dove i fedeli si fermano per la “Lapidazione di Satana” che secondo la tradizione islamica sarebbe comparso più volte per distogliere il patriarca Abramo dall’ubbidienza al comando di sacrificare il figlio. Si tratta di un rito che ha traghettato nel terzo millennio l’istituto arcaico della lapidazione come anche la possibilità di indicare in una persona, in una città o in uno Stato, l’incarnazione del grande o del piccolo Satana.

Faticavo a comprendere la ratio del nome di questa festa perché, piaccia o meno, Isacco dal monte Moria discese con le sue gambe. Oggi, pensandoci, mi è più chiaro, perché l’enfasi della rito islamico non è posto sulla salvezza, ma sull’obbedienza. Questione di punti di vista.