La terra della Croce: questa è l’impressione che l’Armenia lascia ai suoi visitatori, magari inconsciamente, eppure, cercando di rielaborare informazioni, esperienze, sensazioni, letture alla fine il comune denominatore rimane un’adesione al cristianesimo che si fa carne e sangue di un popolo nella sua cultura, nelle sue istituzioni, nella sua identità più profonda. L’Armenia ha una storia peculiare fin dal suo primo ingresso nell’ecumene cristiana, potendosi proclamare con orgoglio il primo regno cristiano della storia e inaugurando, verrebbe da dire, la tradizione costantiniana ancora prima di Costantino. Risale infatti al 301 (oggi gli storici tendono a posticipare l’avvenimento di qualche anno) la conversione del re Tiridate III al cristianesimo, con ciò divenuto la religione ufficiale del regno armeno.
Secondo quanto riporta l’antico storiografo Agatangelo, protagonista della conversione di Tiridate fu san Gregorio l’Illuminatore, un san Silvestro caucasico, un armeno educato nella fede in Cappadocia, il quale fu inizialmente perseguitato dal re e rinchiuso in un pozzo profondo per impedirgli la predicazione del Vangelo. In seguito, giunte da Roma in Armenia alcune vergini cristiane in fuga dalle persecuzioni di Diocleziano, Tiridate si accese di passione per una di loro, l’incantevole e tenace Hripsimé, che invece preferì il martirio, nel quale la affiancarono la superiora della sua comunità, Gayané, e altre compagne, piuttosto che violare la sua consacrazione a Dio.
Questo gesto abietto fece cadere Tiridate vittima di una maledizione che gli provocò una bizzarra forma di licantropia, cioè la trasformazione in cinghiale, dalla quale solo san Gregorio seppe liberarlo. A quel punto Tiridate ricevette il battesimo insieme al suo popolo e Gregorio l’Illuminatore, in seguito a una visione soprannaturale, fece costruire una cattedrale a Echmiadzin, “il luogo dove discese l’Unigenito”, il cuore sacro dell’Armenia, oltre a due santuari dedicati alle martiri Hripsimé e Gayané, dando così inizio all’opera di inculturazione della fede in Armenia. Accanto a questa tradizione di origine cappadoce ne esiste in realtà un’altra di provenienza siro-palestinese, emblematicamente rappresentata dagli apostoli Bartolomeo e Taddeo, che per primi avrebbero predicato il Vangelo agli armeni: nella successiva identità ecclesiale armena le due tradizioni, quella greca e quella siriaca, avrebbero finito per fondersi e armonizzarsi.
L’Armenia è quindi la terra della Croce innanzitutto per la sua precocissima sintesi religiosa, politica e culturale, nell’essere cioè divenuta uno Stato cristiano addirittura in anticipo rispetto all’impero romano. La croce trionfale di Gregorio e Tiridate è però al tempo stesso la croce del martirio, simbolo di una fede radicata e temprata nella testimonianza resa a Cristo fino all’effusione del sangue. Già nell’anno 451 gli armeni dovettero dare prova di essere disposti a offrire anche la propria vita per conservare ciò che avevano di più caro: quando i Persiani cercarono invano di imporre loro il mazdeismo, uno dei più grandi eroi armeni, il principe Vardan Mamikonian, si pose a capo delle truppe che dovevano contrapporsi al soverchiante esercito nemico.
La notte prima della battaglia di Avarayr, gli armeni si prepararono consapevolmente a dare la vita, pregando e ricevendo i sacramenti, mentre Mamikonian rivolgeva ai soldati parole che dovevano rimanere impresse nei cuori armeni di ogni tempo come un viatico, come una consegna da trasmettere di generazione in generazione: «Chi credeva che la fede cristiana fosse per noi come un abito, si accorgerà invece che non può togliercela, perché è come il colore della nostra pelle».
L’indissolubilità del legame fra identità armena e fede cristiana nel corso dei secoli ha dato vita a originali forme artistiche: anche per questo l’Armenia è la terra della Croce, per le innumerevoli croci di pietra — Khachkar — che la costellano, soprattutto nei pressi dei suoi antichi monasteri. Accanto a esemplari più semplici, risalenti di solito al secolo IX, si trovano Khachkar più tardi (sec. XIII-XIV), meravigliosamente lavorati con decorazioni vegetali e geometriche che in certi casi sembrano veri e propri ricami, come quelli, attribuiti al maestro Momik, del monastero di Noravank, situato in una valle rocciosa di grande suggestione. Nella maggior parte dei casi la santa Croce è rappresentata come albero della vita, senza la raffigurazione di Cristo, anche se non mancano Khachkar di una tipologia diversa, detti “del Salvatore”, che rappresentano Cristo sulla croce, come quello conservato nel monastero di Haghpat.
Luoghi di spiritualità e di elaborazione artistica e culturale, i tanti monasteri sparsi nei mutevoli paesaggi dell’Armenia caucasica, con la loro inconfondibile architettura, sono la testimonianza del livello di civiltà raggiunto da questa cristianità di frontiera nei secoli del Medioevo: per la maggior parte abbandonati in epoca sovietica, vengono ora amorevolmente recuperati. La devozione della Chiesa armena si è concentrata nei secoli sulla Croce salvifica e non ha sviluppato una teologia dell’icona simile a quella delle chiese bizantine, ciò non toglie che le immagini vengano venerate: in particolare sopra l’altare delle chiese armene è sempre presente un’immagine della Madre di Dio, celebrata da san Gregorio di Narek, il mistico Dottore degli armeni, con le espressioni poetiche che gli sono caratteristiche: «Angelo emerso fra gli uomini, / cherubino vestito di visibile carne / Tu Regina del cielo, che sei / limpida come l’aria, / pura come la luce, / immacolata come fedele immagine / dell’astro del mattino / all’ora del suo massimo splendore».
Molto più che la pittura, è però l’arte della miniatura ad essere stata coltivata nell’Armenia medievale, una forma artistica che del resto è strettamente connessa all’intensa produzione libraria e alla vita intellettuale che caratterizzava i centri ecclesiastici armeni. Ora molte migliaia di manoscritti sono custoditi, restaurati, studiati nella biblioteca del Matenadaran di Yerevan, dove è possibile ammirare una scelta di questi antichi codici miniati la cui bellezza, dopo tanti secoli, non smette di abbagliare.
La cultura scritta era tenuta in altissima considerazione nell’antica Armenia, così come l’oggetto fisico del libro; un ignoto copista del XIV secolo annotava su un codice che «Per lo stolto il manoscritto non vale niente, per il saggio ha il prezzo del mondo»: è un legame, quello dell’Armenia con la cultura scritta, che risale alla creazione dell’alfabeto armeno da parte di san Mesrop Maštoc’ all’inizio del secolo V, rivelatasi fondamentale per la conservazione dell’identità culturale di un popolo sempre stretto tra vicini più potenti.
Delle tante traversie affrontate dagli armeni in lunghi secoli di storia, nulla è paragonabile alla tragedia patita dalle comunità soggette all’impero ottomano tra il 1915 e il 1917, con strascichi negli anni immediatamente seguenti: è quello che gli armeni chiamano Metz Yeghérn, il Grande male, a buon diritto considerato, pur tra mille polemiche, il primo genocidio della storia del Novecento. Paradossalmente fu un movimento politico che, già dal nome, Unione e Progresso, si voleva moderno, laico e riformatore a concepire freddamente l’eliminazione della popolazione armena dal suolo turco. Preso completamente il potere su ciò che rimaneva dell’antico impero ottomano tra il 1908 e il 1913, i Giovani Turchi di lì a poco progettano e mettono in atto un piano di sterminio che nasceva, in fondo, dalla cattiva assimilazione della parte peggiore della cultura occidentale, cioè il nazionalismo, il male che aveva già avvelenato l’Europa: a differenza dell’impero ottomano, da sempre multietnico, la Turchia del futuro doveva essere solo ed esclusivamente per i Turchi.
Non esiste confronto tra i massacri e i pogrom che tormentarono gli armeni nell’ultimo decennio dell’Ottocento e la lucida, sistematica crudeltà del piano di sterminio messo in atto dal governo turco all’inizio del secolo successivo — che coinvolse peraltro anche le comunità cristiane siriache, caldee e assire, vittime ai nostri giorni di un secondo martirio. Prima le élite armene di Costantinopoli furono senza preavviso eliminate, poi i soldati armeni dell’esercito turco vennero disarmati e trucidati, infine, con ritmi serrati e modalità ovunque simili, si diede ordine alle popolazioni di abbandonare le loro case e mettersi in viaggio verso una meta sconosciuta, in realtà i deserti della Mesopotamia. Sebbene scortate da gendarmi turchi, le interminabili carovane di esuli erano vittime, lungo la strada, delle tribù curde e di bande armate irregolari a cui il governo aveva lasciato mano libera. Scrive Gabriella Uluhogian: «Nei racconti dei sopravvissuti, e dispersi poi nelle più diverse terre del pianeta, si ripetono gli stessi ricordi: l’Eufrate rosso di sangue, lungo il quale marciavano le carovane, giovani donne che si suicidavano piuttosto di cadere preda dei loro assalitori, madri all’estremo delle forze […] che vedevano morire di sfinimento i loro neonati».
Il genocidio degli armeni costò all’incirca un milione e mezzo di vittime per fame, sete, malattie e massacri sommari, nonché fughe disperate, saccheggi generalizzati, stupri, conversioni forzate all’islam, annientamento del retaggio armeno in Anatolia: è questo il terzo motivo per cui l’Armenia — l’Armenia storica, di cui l’attuale Repubblica d’Armenia, coincidente con la parte orientale, caucasica del Paese, soggetta all’impero russo prima e poi all’Unione sovietica, costituisce solo un frammento — è la terra della Croce, per il martirio patito dalla sua gente, un martirio ancora più odioso per essere stato poi sistematicamente negato da parte di chi l’aveva messo in atto e anche, in seguito, quasi dimenticato in Occidente. Fino ad anni non troppo lontani, ad esempio, in Italia il genocidio degli armeni era noto quasi solo attraverso il romanzo epico e ormai classico di Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh. «Ovunque vada non dimenticherò / le nostre canzoni che hanno voce di dolore / e i libri di pergamena pieni di preghiere e di pianti. / Malgrado le piaghe / che feriscono il mio cuore addolorato / la mia Armenia diletta, insanguinata, io canto», così Yeghishe Charents dava voce a sentimenti condivisi dai tanti armeni che si sono dispersi nella diaspora.
Continua Uluhogian: «Questa rottura del percorso storico di un popolo è di per sé insanabile, ma potrebbe essere resa meno dolorosa dal recupero della verità. Invece la Repubblica di Turchia, fondata da Mustafa Kemal Pasa, non ha mai riconosciuto e non riconosce nemmeno oggi il genocidio armeno»; se il crimine immane commesso negli anni tra il 1915 e il 1920 costituisce il peccato d’origine della Turchia contemporanea, il silenzio e la negazione dell’accaduto ne rappresentano la perpetuazione. Da parte armena nessun vittimismo interessato, ma solo il desiderio che la verità, una volta per tutte, sia affermata ad alta voce, per rendere giustizia a chi è morto, a chi è rimasto segnato per sempre dal dolore, a chi ha dovuto prendere la via dell’esilio. È il miracolo di un piccolo popolo dalle radici potenti, quello di aver attraversato un abisso di orrore e aver conservato nonostante questo un tratto dolce, gentile, ospitale. Può ben cantarlo orgogliosamente il poeta Paruyr Sevak: «Siamo pochi, ma ci chiamano armeni».