«Con usura» lamenta Pound nei suoi Cantos «nessun dipinto è fatto per durare o per conviverci/ — si fa perché venda, e in fretta».
È a questi versi che viene da pensare, per immediato contrasto, inabissandosi nella poesia di Alfredo Rienzi. Perché Rienzi mostra e invita a un rapporto con la parola di tutt’altro segno, né usuraio né usurato, ma relazionale. Non fanno eccezione i versi che compongono la sua nuova raccolta, Notizie dal 72° parallelo (Joker 2015, 76 pp., euro 13); versi che invitano a un rapporto di durata e convivenza, appunto, e che a una convivenza e a una durata invitano anche chi si trovi a leggerli. Versi, per intenderci, che non fanno venire voglia di essere spiegati o parafrasati, ma al contrario di essere riletti. Come una bella donna che, pur volendo, non si riesce a smettere di fissare ammirati, i lavori di Rienzi hanno quella mistura di fascino del vero e di trattenimento del mistero che lascia appunto ammirati e interdetti. Interdetti a sufficienza da non poter presumere di capirli ma, casomai, appena di intenderli; eppure a sufficienza ammirati, anche, da subito volervi tornare.
A che cosa affidarsi, allora, per introdursi a una lettura che non perda per strada i significati custoditi nei componimenti della raccolta? Anzitutto, non preoccuparsi dei significati, ma lasciarsi andare alla relazione col testo. Come accade nella migliore arte, infatti, Rienzi dà l’impressione di cogliere mentre scrive — quando pur lo colga — il senso profondo di ciò che scrive. Nessuna naïveté, intendiamoci: al contrario, un’osservanza stretta delle regole di composizione, pur nella libertà del verso, proprio perché tanto più si va all’avventura, tanto più occorre saper guidare il proprio mezzo, pena uscire di strada alla prima curva inattesa.
In questa prospettiva, è quasi un accento di colore il sapere quali dei personaggi che prestano volto e voce alle prosopopee rienziane siano reali e quali appartengano invece a quella singolare e necessaria realtà che è l’immaginazione. Perché pur essendo, come ama sottolineare, poeta visionario, Rienzi non è un poeta «a chiave». O forse sì, ma di quella chiave libera e sfuggente con cui Eliot battezza le nostre ansie classificatorie, quando ammonisce sé e noi al ricordo che «pensando alla chiave/ ognuno conferma la sua prigione».
Ecco allora che, liberi dalle ansie definitorie che troppe volte ammorbano il nostro godimento estetico, possiamo seguire le maschere di Rienzi nei loro nascondimenti e vivere insieme ad esse gli svelamenti improvvisi che colgono. Come St. Y., che inviando notizie dal settantaduesimo parallelo, si scopre in realtà a chiedere, a chiedere non le ennesime notizie ma un senso:
«Il vento qui solleva i fogli/ carte come colombe, notizie decadenti/ il battito d’ali è innaturale// […] a noi portatori sani dei mali/ del mondo, recalcitranti ma in fondo/ buoni consumatori/ quale fu il dubbio non espresso,/ la segreta ragione/ la segreta ragione…?» (St. Y. invia notizie dal 72° parallelo).
Una domanda di senso non extra rebus ma in rebus, che parte da un’osservazione acuta del reale, da una permeabilità dell’osservatore con ciò che lo attornia, e che proprio perciò è capace di trasfigurare l’inerzia apparente degli oggetti in tutta la loro profondità di segno. Ed ecco allora Deanna, che viaggiando una di quelle tradotte eufemisticamente ribattezzate «regionali veloci» guarda fuori dal finestrino e non vede passare — per esempio — il tempo, i rimpianti, le nuvole e il cielo ma «Le ore furenti e umide dell’amore/ le riprese accelerate sul bianco/ tumulto delle nuvole e l’immobile/ turchese dove s’adagiano le Dominazioni», e che proprio in virtù di questa acutezza dello sguardo si ritrova a chiedersi «Cosa salvare, cosa offrire al Moloch?», conscia che «Duramente concede la domanda scelte multiple, silenzi, attese…» (Deanna sul treno regionale veloce 10270).
Ma se queste linee di lettura sono pur vere, il solo modo di non sprecare la poesia di Rienzi, di goderne in tutte le sue possibilità, è quella di lasciarsi accompagnare dal suo sguardo, di affidarsi alla sequenza delle parole e delle immagini, di vivere un’avventura dello spirito seguendo i suoi personaggi, usando ciascuno di loro come un prisma capace di farci vedere un colore nuovo del mondo. Nuovo per profondità, non per stravaganza, perché i sentimenti che Rienzi tratta sono quelli di tutti, solo più acuti, più esposti, e forse proprio perciò bisognosi di una maschera che li viva: amore, morte, desiderio di pienezza, rimpianto dell’incompiuto, viltà quotidiana…
È a questo sguardo, più ancora che ai singoli esiti artistici, che si resta avvinti. Perché, nelle sue contorsioni, nelle fisime e nelle resistenze, lo sguardo di Rienzi si svela come uno sguardo di pietà, come uno di quegli sguardi che il cielo, per il bene di tutti, continua lungo la storia della fratellanza umana a suscitare. Attenti, delicati, virili, capaci di chiedersi «perché» e in questo perché di aspettare, nonostante tutto, che una risposta ci s’inchini innanzi.
Come puoi allo stesso modo amare
– chiedevi con le labbra appena mosse –
la vittima e il carnefice, chi dice
e chi tace, chi sceglie e chi attende
al bivio, il santo o l’uomo lupo?
Guardavo, mentre addolciva l’aria
un canto in genovese, i tuoi occhi
tra il grigio e il verde antico, né lustri né opachi.
Ti risposi non lo so, mi viene naturale e cercavo
quale mano fosse in te dell’una, quale dell’altro.
(Una domanda di Irma C., pittrice d’alberi, a un monaco basiliano)