Una misericordia cercata a tutti i costi, costi quel che costi: dopo il prezzo pagato sulla e della Croce, nessuna richiesta potrà mai essere così esorbitante d’apparire un insulto al buon senso di quaggiù. Gli addetti-ai-lavori han fatto carte false per procurarsi l’anticipazione del libro di papa Francesco, una sua conversazione avuta con il giornalista Andrea Tornielli. Chiarissima l’intenzione: arrivare giusto un attimo prima degli altri a narrare la storia, a confidare l’ultimo aneddoto del narratore-Bergoglio, ad indovinare l’ultima sfida lanciata dal Papa francescano.
Francesco, col fiuto tipico dei figli di sant’Ignazio di Loyola, aveva sospettato anzitempo questo mettere-all’asta il suo raccontarsi. E, per questo, ha pensato bene di giocare d’anticipo, come d’azzardo, anticipando il tutto nel titolo: Il nome di Dio è Misericordia. Scritto da lui, con calligrafia da condottiero, tremolante quanto decisa. Mettendo la maiuscola alla Misericordia, mica una quisquilia: non è un trattato, è più postulato che teorema. Ancora poco: è la storia che il mondo decretò come la più ambiziosa e paradossale. La storia del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe: del padre, del figlio, del nipote. Il Dio di casa.
Dopo il soprannome di “Emmanuele” – calato dalle altezze della profezia e dell’attesa – al Dio fattosi uomo in Gesù di Nazareth Francesco tributa l’appellativo di “Misericordia”, facendolo salire dalle profondità sudicie di polvere della periferia. La periferia, la misericordia, eppoi Dio: una triade ch’è la migliore anticipazione di un libro nato per avvicinare più che per sorprendere, raccolto come una confidenza, cercato come si cerca una stella di notte. Un libro che, stante allo stile del papato, nient’altro narrerà se non il Dio delle sorprese, l’imboscarsi della Grazia, l’agguato della misericordia. Il Dio del poeta Borges, assai caro al Papa argentino: «Nelle crepe sta in agguato Dio». Le mille crepe, foriere dei mille agguati celesti.
Una crepa su tutte, la radice: il peccato. Un tema che nel suo pontificato è secondo solo a quello della Grazia: il peccato provoca vergogna, la Grazia trasforma quella medesima vergogna nella fessura dentro la quale Misericordia abbraccia la miseria. Perché il cristianesimo di Francesco, alla resa dei conti, è un eterno reincontrarsi-in-due: “Relicta sunt duo: misera et misericordia“, “Sono rimasti in due: la misera e la misericordia” (Agostino). La vergogna non è mai l’ultima parola: qualora Dio la fomentasse, è perché diventi memoria per sé di una storia ricucita, promemoria per altri che tutto questo sia a disposizione di tutti. Forse per questo il titolo è stato scritto di suo pugno in tutte le lingue del mondo: Dio per tutti, comprensibile a tutti.
La misericordia, dunque: nascosta dappertutto, rintracciabile ovunque, custodita nella Scrittura e colorata dai Padri della Chiesa. Nascosta, e questo piacerà tantissimo ai lettori, nei mille aneddoti di un Papa costantemente chino sull’apparente banale alla disperata ricerca del fondamentale: delle tracce di Dio dentro le rotte dell’umano. Della propria storia: «Leggo quelle pagine (di Isaia 16, ndr) e mi dico: ma tutto questo sembra scritto per me! Il profeta parla della vergogna, e la vergogna è una grazia: quando uno sente la misericordia di Dio, ha una grande vergogna di se stesso, del proprio peccato». Non c’è nulla, nella Chiesa di Bergoglio, che possa temere d’andare sciupato: nemmeno la vergogna di se stessi, se è pur vero che non c’è grazia più grande di sapersi peccatori. E’ un Papa che piange la morte del suo confessore, è Pietro che s’ostina a chiamare signora una prostituta d’Argentina, è Cristo che sogna, da tempi immemori, che nessuna casa sia senza la festa del cuore.
E’ una conversazione: il linguaggio dei bambini a scapito di quello dei rabbini. Francesco sa che narrare è generare: il suo Dio è vita che si racconta.