E’ rimasto tutto-suo-padre, anche quando gli ammiratori, divenuti oramai un intero pianeta, gli hanno accreditato il nettare dell’immortalità, facendogli capire che, da piccolo ch’era, il principe si era fatto gigantesco, addirittura di fiaba. Pagherebbero assai i suoi affezionatissimi lettori sapere se — applaudito e riverito da oltre 173 milioni di lettori — sia ancora in grado di arrossire: «E quando si arrossisce, significa sì, vero?». Il rossore è una evanescenza sulle gote, un fievole battito di cuore, una vaporosità che vale una conferma. E’ tipico dei bambini, com’era tipico di Antoine, il papà che — talvolta arrossendo senza rispondere quando le domande lo imbarazzavano — partorì una storia capace di parlare all’umano di ogni tempo. A patto che sempre si rammenti d’essere stati tutti, almeno una volta, bambini: «Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi di essi se ne ricordano)» ha fatto trovare scritto nella dedica all’amico fraterno Leone Werth, «quando era un bambino» per l’appunto.
Col passare del tempo, il principe si è fatto uomo: un gran-pezzo-d’uomo, verrebbe da dire. Chissà se coloro che l’hanno incrociato — magari come dono di Natale o ammirandone l’acume nel film di Mark Osborne — si saranno chiesti, oppure no, di chi è figlio quel bambino. Non sia mai che, divenuto adulto, si dicesse anche di lui ch’è un ingrato verso chi gli ha procurato i natali. E’ che la troppa fama procuratagli dai lettori, ha fatto invecchiare malamente l’immagine del papà. Quand’invece apparteneva alla razza delle aquile: Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), scrittore-aviatore di Francia che, in piena tenebra novecentesca, illuminò la società con questo bambino dai capelli color del grano.
Antoine: chi era costui? Sopratutto «un sognatore. Lo ricordo, col mento nella mano, che guardava fuori dalla finestra verso i ciliegi. Mi ricordo un ragazzo modesto, un originale, che non studiava troppo e che, di quando in quando, aveva esplosioni di gioia, di esuberanza» (S. Schiff). Nato col nascere del Novecento, con la sua vita tradotta in poesia ha rappresentato l’altra faccia del secolo-breve: se da una parta l’idea di potenza ha coinvolto le masse fino a condurle nell’abisso della barbarie umana, Antoine spese tutte le sue forze per dare voce all’interiorità, a quelle linee di forza che tengono in vita la storia degli uomini. Alla memoria di ciò che è stato, più che al tentativo di creare ciò che sarà: il futuro, per lui, non poteva che essere un ritorno. Un ritornare all’infanzia per poi, ogni volta, ripartire. L’infanzia era la sua isola-di-Itaca: viaggiare, come per Ulisse, significava portare con sé la nostalgia del suo essere stato bambino. Meglio ancora, la stagione dell’infanzia fu la sua piccola Betlemme: «Di dove sono io? Sono della mia infanzia come di un paese» scrive in Pilota di guerra. L’infanzia: il tempo del paese nel quale abita il padre, i riti e i cerimoniali delle feste, il calore degli affetti. La stanza-vuota di casa. Forse anche il tempo di Dio.
Ha abitato i medesimi anni di Camus, di Sartre, di Malraux, di tutta quella generazione di scrittori transalpini che hanno tentato testardamente, in piena disumanizzazione, di abbozzare una sorta di nuovo umanesimo: il mondo, prima che evangelizzato, andava ri-umanizzato. Eppure, anche qui, seppe far emergere il suo tratto più tipico: della nausea di Sartre, dell’assurdo di Camus non seppe che farsene. Per lui — differentemente dagli altri per i quali il mondo non poteva più tornare composto dopo quella tribale frattura — c’era ancora la possibilità di cogliere il bersaglio, pur potendolo sempre anche fallire. Bastava essere disposti a tornare bambini, per sfidare addirittura la morte: tanto, morire è nulla se si conosce ciò per cui si sta morendo. L’essere-nel-mondo può diventare un’apertura radiosa alla vita fino a divenire un essere-per-la-morte, il marchio di fabbrica indelebile.
All’assurdo replica con l’ideale, al pessimismo risponde con l’ottimismo, all’oltraggio di Dio reclama l’urgenza di Lui: «Appari a me, Signore, perché tutto è così difficile quando si perde il gusto di Dio» annota in Cittadella. Quello di Antoine era uno sguardo — che poi diveniva scrittura — che bloccava al volo qualsiasi idiozia. Era l’eredità alla quale era stato educato: la dignità dell’uomo, la nostalgia dell’assoluto, l’avversione per l’arrendevolezza perché «a tormentarmi è che in ognuno di questi uomini c’è un po’ Mozart, assassinato. Solo lo Spirito, se soffia sull’argilla, può creare l’uomo». Lo scrive in Terra degli uomini, ma odora pesantemente di Cielo: non teme di proporre l’eroismo, fin quasi a carezzare la mistica. Vuol fare del suo messaggio un invito alla riscoperta del lato spirituale del vivere. Rimase sempre così: chino sul banale, alla disperata ricerca del fondamentale. Per terra, come a quattrocento metri d’altezza: gli importava ricordare alle persone la loro capacità di infinito.
Il Piccolo Principe uscì il 6 aprile 1943. Le sue ultime righe, per la bocca del narratore, odorano di profezia: «Al levar del giorno non ho ritrovato il suo corpo. Non era un corpo molto pesante…». Il 31 luglio 1944, sorvolando la Baia degli Angeli, al largo di Sainth-Raphael, l’aviatore Antoine — soprannominato Pizzicalaluna per il suo naso sempre teso all’insù — sparì nel nulla. Inghiottito dal mare, assieme ai suoi misteri: non fu suicidio, nemmeno resa. Per chi l’amò, anche solo sui suoi libri, la sua morte rimase un’offerta: un offrirsi a lei perché il desiderio di ricongiungersi con la sua rosa era divenuto lancinante, insopprimibile. Non scomparve mai: s’era nascosto, ben-bene, nel suo principe per continuare a volare. Per far volare milioni di lettori alla ricerca del Mistero.