All’inizio egli anni Novanta c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia? E’ vero che al centro dello scambio fu la mitigazione del 41bis (cioè l’applicazione del carcere duro, quello originariamente previsto per le Brigate rosse) richiesta dalla cupola mafiosa detenuta nelle isole di Pianosa e dell’Asinara, e la fine delle stragi seminate in mezza Italia richiesta dallo Stato?
Queste domande elementari sono rese realistiche da una massa di documenti e testimonianze agli atti dei tribunali.
Ma esse cessano di essere tali, appese a prove, e diventano teologismi, ordalie, riti e profezie di una religione quando magistrati insoddisfatti del proprio ruolo pretendono di riscrivere la storia d’Italia con le sentenze.
Mi limito a fare un esempio. La sentenza di assoluzione, nell’ottobre 2013,degli uomini dei Ros Mario Mori e Mauro Obinu dall’accusa di favoreggiamento di Cosa nostra (per il mancato arresto di Provenzano) è preceduta da una narrazione storica di 800 pagine su un totale di 1300!
Da Nino Di Matteo ad Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato si è perseguito il disegno di sostituire alla storiografia e alla politica i giudizi emessi dalle corti giudiziarie. Si è realizzato un unico risultato: visioni, interpretazioni complottistiche su molti episodi della nostra storia contemporanea messe a punto dai magistrati si affastellano a quelli partoriti da una subcultura storiografica come quella molto spesso messa in circolazione da alcuni editori.
Questa cultura spiega perché i soli governi presieduti da Silvio Berlusconi sarebbero stati l’incarnazione, se non la continuazione, sotto altre spoglie, dei desideri e più specifica mente degli interessi della mafia. Agli occhi di questa estrema sinistra giudiziaria e politica il principale di questi pregiudizi fu di considerare quei governi almeno responsabili di una politica di mancata contrapposizione ad essa con conseguenti insufficienti azioni di contrasto.
Per circa una ventina d’anni una parte dell’opinione pubblica e della stampa ha nutrito l’idea che, attraverso le fortune elettorali e il pervasivo controllo delle istituzioni da parte di Forza Italia, i boss si sarebbero fatti governo e Stato. Non avrebbero, quindi, avuto più bisogno di dedicarsi ad attività delittuose. È in realtà quanto è avvenuto, dal momento che dopo il 1993 è iniziata una sorta di diminuzione, se non di declino, della mattanza. Dura fino ad oggi.
Berlusconi per la verità non c’entra per niente. Il pentito Giovanni Brusca, nella deposizione resa nell’aula bunker di Rebibbia durante il processo contro il gen. Mario Mori accusato di favoreggiamento della mafia, formulò una testimonianza tagliente: “Berlusconi può essere accusato di tante altre cose, ma per le stragi del ’92-’93 non c’entra niente, non facciamolo diventare un martire. Veniva accusato anche di cose peggiori. Di tutto questo parlai con i miei cognati, Salvo e Rosario Cristiano. Ho querelato L’Espresso perché non ha rettificato una notizia falsa: io non sono mai andato da Berlusconi”.
Anche sentenze della magistratura, fino ai vertici della Corte di Cassazione, hanno stabilito che tanto Berliusconi quanto lo stesso Marcello Dell’Utri non hanno mai preso parte a trattative con Cosa nostra. Né come rappresentanti dello Stato e del governo né per conto dei corleonesi.
Dello scambio tra la mitigazione delle severissime pene previste dall’articolo 41bis del codice penale e la fine dell’azione stragista dei boss, allo stato dei fatti, cioè delle prove disponibili ai magistrati, i fondatori di Forza Italia non pare si siano mai occupati.
In effetti, tutta la vicenda legata alla ricerca di un’intesa tra Stato e mafia si è consumata durante quello che è stato l’ultimo governo diretto da Giulio Andreotti. Era di centro-sinistra. Si fondava, dunque, su una maggioranza che storicamente è stata formata da Dc e Psi con la collaborazione dei repubblicani e dei socialdemocratici (e dagli anni Ottanta dei liberali). Pur non essendo questo genere di coalizioni succedutesi nel tempo (dai primi anni Sessanta al 2001 e alle elezioni politiche del 2006) omologabili tutte con lo stesso termine, anche quello prima citato di Andreotti in qualche misura lo si può definire di centro- sinistra. Durò sino alla fine della prima repubblica.
Emanazione di questi governi sono alcuni dei protagonisti della trattativa Stato-mafia. E’ il caso dell’attuale generale (allora colonnello) Mario Mori. Nominato comandante della sezione anticrimine del reparto operativo di Roma presso l’Arma dei Carabinieri divenne uno dei protagonisti della lotta al terrorismo, in collaborazione col gen. Alberto Dalla Chiesa. Dal 1986 al settembre 1990 ebbe il comando del Gruppo Carabinieri di Palermo. Lascerà l’Arma il 1° ottobre 2001, quando venne nominato prefetto e direttore del servizio informazioni (il Sisde) fino al 16 dicembre 2006. La sua carriera di alto ufficiale è punteggiata da due accuse che ruotano corposamente attorno al reato di favoreggiamento della mafia. Tramite Ciancimino avrebbe avviato la trattativa con i corleonesi per conto dello Stato.
Due gli atti di enorme gravità commessi per renderla possibile. Il primo sarebbe la volontà di salvaguardare la latitanza o di ostacolare la cattura di Bernardo Provenzano quando, il 31 ottobre 1995, il confidente Luigi Ilardo condusse gli uomini del Ros a Mezzojuso all’incontro col boss (che sarà arrestato l’anno dopo, nel 1996). Il secondo sarebbe stato la fuga, nel 1993, di un altro pezzo da novanta come Nitto Santapaola da Terme Vigliatore. E soprattutto la mancata perquisizione del covo (la villa di Via Bernini 54, con giardino, piscina e un tunnel per la fuga) di Totò Riina. Grazie alla collaborazione preziosa di Provenzano, che salta il fosso, il capo di Cosa nostra il 15 gennaio 1993 viene messo in manette da Balduccio Di Maggio e da Sergio De Caprio (il famoso capitano Ultimo). Ma la sua ultima abitazione viene lasciata incustodita per 18 giorni, malgrado le disposizioni del nuovo procuratore di Palermo Giancarlo Caselli di tenerlo sotto controllo 24 ore su 24.
Dopo il blitz in cui il capo dei corleonesi venne messo in ceppi, Cosa nostra lo fa trovare alle forze dell’ordine perfettamente vuoto, ma ripulito con un aspirapolvere, i sanitari del bagno divelti. Niente impronte digitali. E le pareti ben tinteggiate costituiscono una punta di impareggiabile sarcasmo verso procura, questura e prefettura.
In seguito alla perquisizione del covo, favorita dai buoni uffici di Provenzano, che si è disfatto del suo vecchio compare Riina consegnandolo al torinese Caselli, neoprocuratore di Palermo, di carte e documenti importanti (stivati in due casseforti) da rovistare e prelevare non è rimasto più nulla.
Da queste imputazioni, sostenute dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dal pm Nino Di Matteo, Mori (insieme al capitano Obinu) è stato assolto il 20 febbraio 2006 e il 15 ottobre 2013 con formula piena, addirittura “perché il fatto non costituisce reato”.
Tre giorni fa (il 18 gennaio 2016) dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato è stata chiesta la sua condanna a 4 anni e mezzo di reclusione, con interdizione per 5 anni dai pubblici uffici. Ma la mancata cattura di Provenzano non è più presentata, come fu nel processo di primo grado, come la cambiale richiesta per far avanzare la trattativa tra Stato e mafia. Ora le responsabilità di Mori e Obinu sono su un tavolo diverso. Sono concentrate nel favoreggiamento personale, nella “volontà consapevole e dolosa di nascondere le informazioni”, una “condotta volontaria e consapevole”, dominata dal dolo per impedire alla Procura di indagare su Provenzano, e non eseguire la perquisizione del cosiddetto covo di Riina.
Tutto è ormai rimesso a quelle che si possono chiamare le prove dei poveri, cioè il disinvolto palpeggio nella psicologia del personaggio.
Per il magistrato palermitano, Mori è un personaggio figlio del suo passato, cioè di normale cupezza e mediocrità. Parla infatti di un investigatore reclutato nel 1972 dal Sid di Vito Miceli. Dunque “formatosi all’ombra delle agenzie di intelligence” … “con la mentalità di quei servizi che hanno creato distorsioni nella vita democratica del paese”. Dunque, un funzionario inaffidabile, in permanente rotta di collisione con le regole, anzi “un uomo dalla natura anfibia: il protagonista di vicende che hanno come comune denominatore la deviazione costante dalle procedure legali per motivi extra-istituzionali e e dunque illeciti e occulti”.
Scarpinato e Ingroia, insieme alla cupola di estrema sinistra dei tribunali siciliani, si sono ripromessi di riscrivere la storia d’Italia con le sentenze, e quindi di sostituire i politici con i magistrati. Non si vede il bisogno di maltrattare funzionari dello Stato come Mori e Obinu accusandoli di essere l’ossatura di servizi deviati solo perché non hanno retto il fardello ideologico di cui Scarpinato e compagni li hanno voluti caricare. Imparino a fare processi e contestare reati sulla base di prove e non di teologismi politici. In questo modo rendono un pessimo servizio alla magistratura e alla storiografia.
Se in maniera maldestra Scarpinato interrompe la litania sulla trattativa Stato-mafia considerata come un aspetto della subordinazione delle istituzioni alla criminalità organizzata, non c’è ragione di pensare che essa non sia mai esistita come fenomeno concreto, ben circoscritto nel tempo e nello spazio. Non si può, non si deve, buttare il catino e l’acqua sporca.