Si parla spesso di democrazia e della necessità di esportarla nei paesi che non la conoscono. Le politiche occidentali degli ultimi decenni si sono mosse con molta determinazione in questo senso, soprattutto in Medio Oriente e in Africa. Si è parlato della democrazia come di un kit Ikea pronto per essere spedito e montato a destinazione. Non voglio aprire un dibattito in questa sede sugli effetti di questa logica. Mi interessa invece riflettere su un’altra questione, traendo spunto dall’interessante libro di David Van Reybrouck Contro le elezioni. Perché votare non è più democratico. Oggi, stando alle ricerche pubblicate dal World Value Survey, esistono al mondo 117 democrazie elettive (di cui 90 sono considerate anche effettive) su un totale di 195 paesi. Il 91,6% del campione intervistato dalla ricerca (circa 73mila persone in 57 Stati) ritiene che la democrazia sia un buon sistema di governo.



Eppure, negli ultimi anni qualcosa è cambiato e l’entusiasmo per questa forma di governo sta calando. La ricerca di leader forti che non necessitino di passaggi parlamentari per far funzionare lo stato è in crescita. “È come — sottolinea Van Reybrouck — se avessimo aderito all’idea della democrazia, ma non alla sua pratica, per lo meno nella sua pratica attuale”. Un’analisi delle forme di governo riconosce in due parametri fondamentali i criteri di valutazione: la legittimità e l’efficienza. “Se tra le forme di governo la democrazia è la meno peggiore — sostiene l’autore — è proprio perché cerca di soddisfare entrambi i criteri. Oggi le democrazie occidentali si confrontano simultaneamente con una crisi di legittimità e una crisi di efficienza”. 



Sul primo tema, la legittimità, possiamo rilevare tre dati importanti: il calo deciso di afflusso alle urne (in Europa si è passati da una partecipazione dell’85% negli anni Sessanta al 77% del primo decennio del ventunesimo secolo), l’astensione e, da ultimo, la minor adesione ad un partito politico (4,65% la media nell’Unione europea dei cittadini iscritti a un partito oggi).

Per quanto riguarda l’efficienza, la situazione non è più rosea. Le consultazioni per la formazione di un nuovo governo sono sempre più complesse (pensiamo al record del Belgio che è stato un anno e mezzo senza governo dopo le elezioni del 2010); in secondo luogo i partiti di governo pagano spesso un prezzo molto elevato alla successiva tornata elettorale (fino al 27% di calo dei consensi in alcuni casi); in terzo luogo l’azione pubblica richiede sempre più tempo. “La politica — chiosa Van Reybrouck — è sempre stata l’arte del possibile, ma oggi è diventata l’arte del microscopico”. 



Le diagnosi fatte su questa situazione generale sono molteplici e l’autore le ripercorre analizzandole singolarmente. Si va da “è colpa dei politici” (populismo) a “è colpa della democrazia” (tecnocrati), fino a “è colpa della democrazia rappresentativa”, per finire con “è colpa della democrazia rappresentativa elettiva”. “Ecco la prima causa della sindrome di stanchezza democratica: siamo tutti dei fondamentalisti delle elezioni. Disprezziamo gli eletti, ma veneriamo le elezioni. I fondamentalisti delle elezioni rifiutano di vedere le elezioni come un metodo che contribuisce alla democrazia, ma le considerano come uno scopo in sé, come un principio sacro avente valore intrinseco inalienabile”.

Ora, si può essere d’accordo o meno con questa analisi, ma è innegabile che fotografi un momento di disagio del sistema e che queste tematiche affiorino in diverse maniere nella nostra vita di tutti i giorni. Sia nelle esperienze quotidiane (più o meno positive) che nelle discussione con gli amici o i colleghi. A tutto questo va aggiunto che, secondo quanto pubblicato da Ong Transparency International nel Global Corruption Barometer, i partiti politici sono tra le istituzioni più corrotte del pianeta. Certo, ci sono anche elementi positivi come i referendum o la raccolta di firme per leggi di iniziativa popolare che hanno ravvivato la democrazia, secondo l’autore. Ma si potrebbe fare qualcosa di più reintroducendo il sistema del sorteggio, come si faceva nell’antica Atene (IV e V secolo a.C.) o come si fa ancora oggi per la creazione delle giurie in alcuni processi.

“Il sorteggio — ricorda Van Reybrouck — non è contrario alla logica, esso nasce da questa logica: è una procedura volontariamente neutra che permette di ripartire le chance politiche equamente ed evitare disaccordi”. E ancora: “Il rischio di corruzione è attenuato, la febbre elettorale si dissipa e si rafforza l’attenzione per il bene comune. I cittadini sorteggiati non hanno forse le competenze dei politici di mestiere, ma hanno un’altra carta vincente: la libertà. Non hanno effettivamente bisogno di farsi eleggere o rieleggere”. 

Ecco allora l’idea di un sistema misto in cui a cittadini eletti si affianchino altri estratti a sorte per cercare di ridare legittimità ed efficienza al sistema. Non so dire se questa sia la soluzione corretta per affrontare il nostro momento storico. So solo che di fronte a dati molto preoccupanti (e qui ne ho indicati soltanto alcuni), qualcosa va fatto. Mi piace l’idea di democratizzare la democrazia che esce da questo scritto. E soprattutto mi ritrovo nella domanda che l’autore ripropone più volte nel libro: cosa aspettiamo?