Complimenti all’analista di Gad Lerner per come ha condotto questa lunga, difficile e appassionante analisi. Detto ciò, non vi è notizia che ne abbia mai avuto uno (o una). Di sicuro in Scintille. Una storia di anime vagabonde (2009) il suo attualissimo libro di memorie ebraiche e personali non se ne parla. Ma nel caso credo che Lerner si sarebbe rivolto a Julia Kristeva, la parigina e cosmopolita autrice di Stranieri a noi stessi, spesso citata in altri suoi lavori. Complimenti anche all’autore, che si presenta con lo stesso mix di coraggio, sincerità, vergogna, dolore e desiderio di un ipotetico paziente all’appuntamento con le sedute.



Scintille è una meditazione iniziata nell’infanzia e durata cinquant’anni, è un libro scritto nel tempo con la pazienza e la determinazione di venire a capo di quel dedalo drammatico di lingue e nazionalità, di amnesie e censure, brani di memoria dolorosa e luminosa, che compongono la storia personale dell’autore e la storia della sua famiglia. Della sua come di milioni di altre. Scintille è anche il libro della maturità letteraria di Lerner, che si mette sulle tracce di Isaac Baschevis Singer, Shalom Aleichem, Joseph Roth o Bruno Schulz, gli amati cantori della “nuova Terra Promessa degli ebrei, prima che l’invasione dell’Unione Sovietica, scatenata da Hitler col nome in codice ‘Operazione Barbarossa’ alle tre del mattino del 22 giugno 1941, replicasse nella patria yiddish la distruzione del Tempio di Gerusalemme”. 



I Lerner vengono da lì: dal cuore della Galizia Orientale con capitale Leopoli, che Moshè Lerner, il difficile padre di Gad, si ostina a chiamare Lemberg, il nome yiddish e tedesco della città prima che diventasse la polacca Lwow, la russa L’vov e l’ucraina L’viv, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Gli ebrei vi giunsero a metà del 1400 e fondarono una rigogliosa civiltà, barbaramente “cancellata dalla faccia della terra” dalla perversa collaborazione tra nazisti e nazionalisti ucraini.

Sospeso tra biografia, reportage e storia contemporanea Scintille è una guida nella crisi dei nazionalismi in Occidente come in Medio oriente, a partire dallo spaesamento derivante dalle nazionalità stratificate dello stesso autore e dell’enigmatico padre. Gad Lerner è nato a Beirut nel 1954 solo per “uno scherzo del destino”, perché alcune scintille del focolare ebraico che ardeva nella nuova casa europea da cinque secoli sono volate via senza un apparente perché. Negli anni trenta i nonni materni, Taragan, provenienti dalla Lituania con capitale Vilnius, “la Gerusalemme del nord”, erano già orgogliosamente levantini, perfettamente integrati nella buona società libanese. Mentre i nonni paterni Elias e Mancia, partiti nel 1925 per un esotico viaggio di nozze in Palestina, non tornarono più in Galizia. Furono notabili nella siriana Aleppo, dove Elias Lerner “l’ingegnere ebreo polacco laureato a Leopoli si trovò a gestire l’approvvigionamento energetico” della città. 



Il 29 novembre 1947 la dichiarazione delle Nazioni Unite sulla nascita dello Stato ebraico scatenò la furia araba “sulla millenaria Sinagoga”: “zio Mendel, che all’epoca aveva 11 anni, ricorda come (nonna) Teta lo prese per mano, e nella notte (…) si inoltrò tra le mura annerite dalle fiamme, prendendo parte al salvataggio del Codice di Aleppo”, un manoscritto della Torah di inestimabile valore. Il vento era cambiato di nuovo. Le scintille furono spinte nella solare Beirut, il paradiso perduto dell’infanzia felice della seducente madre Tali, creando così vortici disorientanti: perché i nonni lasciarono la comunità ebraica che stava costituendosi in Palestina, preferendo vivere ad Aleppo? Perché, divenuta inospitale la nuova patria, si trasferirono a Beirut e non in Eretz Israel? Perché il padre Moshè, un ebreo nato in Palestina, colpito solo dall’ombra della Shoah, non si unì all’esercito di liberazione israeliano preferendo i fiorenti commerci dei suoceri?

Si percepisce il tormento dell’autore che dal padre eredita la condizione di apolide, un multilinguismo caotico e un’identità tutta da fare. L’amore di Lerner per Israele traluce in ogni pagina, ma come inconsapevolmente i suoi avi e consapevolmente alcune delle maggiori personalità dell’ebraismo: da Lazare a Freud, da Arendt a Einstein e tanti altri, anche Lerner non è un sionista tutto d’un pezzo, ma sull’identità ebraica non ci sono dubbi. Su questo i genitori e gli avi non hanno lesinato un’eredità potente che già si ravvisa nel nome: Gad, il settimo figlio Giacobbe, il patriarca rinominato dopo la lotta con l’angelo: Israele. Come nel refrain continuo del libro sul quarto dei comandamenti di Mosè: onora il padre e la madre. E in modo decisivo per la totale assenza di vergogna dell’autore nell’innestare il proprio pensiero in quello di Abramo — quasi un architrave del libro —, che per Lerner non rappresenta l’autorità del padre che esige obbedienza, ma la libertà del figlio dagli idoli, compresi gli idoli dei padri: “nel mio tredicesimo (… ) anno non ero andato oltre la lettura, con la mamma, di una riduzione della Bibbia, intitolata Eroi ebrei. Ricordo il disegno di Abramo che prima di lasciare la casa di suo padre (Lech lechà, Vattene!), distrugge gli idoli. Convenivo pure io che le statuette degli idoli non meritassero una considerazione divina, ma trovavo che ci volesse un bel coraggio, da parte del ragazzino, a distruggerli”.

Anche per Freud l’eredità ebraica si riassume in due punti: la libertà dai pregiudizi (idoli) e l’attitudine a non temere l’opinione “della massa compatta”. In fondo, scrive Freud nella sua Autobiografia: “non ho mai preteso di essere diverso da quello che sono: un ebreo moravo, i cui genitori provenivano dalla Galizia Austriaca”. Con la consueta chiarezza Freud indagò le origini dell’antisemitismo individuando nella persecuzione degli ebrei la maschera storica della persecuzione dei cristiani. Tesi che Freud sostenne nella sua ultima opera L’uomo Mosè e la religione monoteistica e che la storia recente si sta, drammaticamente, incaricando di confermare.