La pittura a olio, tecnica inventata dai fiamminghi, rivoluzionò l’arte nel XV secolo. Essa trovò, in Italia, un eccezionale interprete in Antonello da Messina: ma come e da chi il pittore siciliano apprese questa tecnica? E soprattutto di chi è il volto splendido della ragazza che posò per l’Annunciata, splendida sua essenzialità, uno dei quadri più celebri e più moderni di tutti i tempi? Il romanzo di Silvana La Spina, L’uomo che veniva da Messina (Giunti, 2015), cerca di rispondere con passione a questi interrogativi, narrandoci una possibile biografia, per voce di Antonello stesso, del maestro siciliano. L’autrice, padovana e attiva nel panorama editoriale fin dal 1992, si è cimentata in passato, fra i vari generi, anche con il poliziesco, con i tre romanzi dedicati alle indagini del commissario Maria Laura Gangemi, pubblicati per Mondadori fra il 2007 e il 2011.



E anche in questo romanzo, in effetti, troviamo qualcosa del plot tipico del giallo. Il racconto inizia a Messina nel 1479: un uomo sta morendo, nella sua casa, circondato dai suoi familiari, dai quali pure si sente estraneo, dopo aver a lungo vagato portandosi dietro una bara in cui è custodito il corpo di una giovane donna: si tratta di Antonello da Messina, il celebre pittore, da lungo tempo assente dalla sua terra. Raccolto, malridotto alla maniera di un mendicante, e ricondotto a casa, mentre il sacerdote gli impartisce l’estrema unzione, ripercorre la sua vita, a partire dalla nascita in una famiglia di umili origini: il padre era un mastro marmorario, soggiogato dalla predicazione dei frati della confraternita degli Osservanti, fautori di un ritorno all’austerità della pratica religiosa; il nonno, un modesto armatore, dalla vitalità prepotente e dalle maniere spicce. Intorno, il tumulto di una città e di una regione sempre tormentate, sempre in balia di capovolgimenti politici, ambizioni, maneggi, rivolte.



Il tratto dominante del giovane Antonello è la curiosità famelica con cui si affaccia alla vita, il che significa essenzialmente la fascinazione per il mondo femminile, e, soprattutto, per la pittura, a partire da un enigmatico e potente affresco di Palazzo Sclafani, rappresentante il Trionfo della Morte, opera di un pittore fiammingo (rimasto anonimo) che impressionerà a tal punto il protagonista da convertirlo alla pittura e da appassionarlo alla tecnica dei Fiamminghi. La vita di Antonello è un moto continuo, espressione esteriore della sua irrequietezza, da Messina a Napoli, e poi a Ferrara, Mantova, per poi tornare in Sicilia, e di lì ripartire per le Fiandre. Su tutto, domina una duplice ossessione: diventare padrone della tecnica della pittura a olio, e raccogliere notizie, testimonianze, informazioni su Van Eyck, il geniale artista che l’aveva perfezionata, un intelletto poliedrico, geniale, appassionato di alchimia. Ma, soprattutto, il cuore del romanzo è rappresentato da Griet, la figlia illegittima di Van Eyck.



Antonello la incontra durante il suo soggiorno nelle Fiandre, quando, recandosi come sua abitudine a rendere omaggio alla tomba del suo faro pittorico, nella cattedrale di Bruges, viene colpito da una donna che, silenziosamente, prega anch’essa per Van Eyck: si tratta di una beghina, che fu modella e amante del pittore e da cui ha avuto una figlia, per l’appunto, Griet. Una volta morta la madre, la ragazza viene accompagnata proprio da Antonello a Venezia, dove un ricco banchiere vedovo originario delle Fiandre l’ha chiesta in sposa. Sullo sfondo della vicenda principale, poi, troviamo una ridda di personaggi, dal buffone Cicirello, a Pisanello, a Petrus Christus, e poi ancora il subdolo umanista Panormita, i fratelli Bellini, e duchesse, mistiche, badesse, nobildonne, vicerè avidi di potere: tutti incrociano la strada di Antonello, e tutti costoro, in un modo o nell’altro, sono votati alla scontentezza di sé, all’ambizione frustrata, allo scacco esistenziale, ad eccezione, forse, della badessa che a Messina commissiona ad Antonello alcuni lavori, e di Piero della Francesca, uomo geniale, ma solitario, chiuso in se stesso, dominato dall’assoluta sicurezza circa l’importanza, per i posteri, di quanto sta facendo.

E questo, per Antonello, sempre perplesso di fronte alla promessa mai mantenuta rappresentata dai familiari (il fratello, che trasforma in sua assenza la bottega di pittore in una pur redditizia fabbrica di bare, i figli, deludenti e con cui non c’è comunicazione possibile, né passaggio del testimone artistico), è un grande insegnamento: “I figli sono l’idea del futuro”, pensa Antonello, “la prosecuzione di noi stessi. Il motivo per cui lottiamo e lavoriamo. Ma quando parlo di queste cose, penso sempre a Piero della Francesca. Quell’uomo non ha moglie e non ha figli, eppure dipinge come un forsennato. Che cosa gli dà in tal caso la forza, la tensione e la speranza che dopo di lui rimarrà qualcosa? Mi rispondo: il fatto che lui crede in quello che fa. Lui sa che la sua eredità è il cambiamento. Persino io, dopo aver visto i suoi quadri, avevo sentito cambiare in me qualcosa. Ne avevo concluso che c’erano uomini che potevano fare a meno di aver figli” (p. 164).

L’uomo che veniva da Messina, ora romanzo picaresco, ora diario interiore di un’ossessione, è un romanzo affascinante: in esso, il tempo – tempo della vita, stagioni e anni – viene scandito non tanto e non solo dagli avvenimenti che toccano direttamente l’esistenza del protagonista, ma dalle sue ossessioni, dalla sua ricerca affannosa di qualcosa che lui nemmeno saprebbe precisare, sino a quando, in un mercato delle Fiandre, non vede, in una donna del popolo, che cammina stretta nella sua mantellina, la posa della sua Annunciata, che avrà il volto di Griet. Il romanzo di Silvana La Spina è un’opera che gronda passione, per l’arte, per il bello, per la scrittura: un’opera coraggiosa e ambiziosa, in un panorama e in un momento in cui potrebbe sembrare che solo il minimalismo e il volare basso possano conciliare i consensi.