Su Giosuè Carducci si è stesa da tempo l’ombra lunga dell’oblio e, forse peggio, del giudizio senza verifica e senza appello che lo inchioda negli angoli polverosi delle librerie. Da decenni ridimensionato, se non uscito, dal canone scolastico, sullo scrittore maremmano pesa la triste nomea del poeta-professore; binomio chissà perché ritenuto indegno, visto che egli onorò l’una e l’altra professione con l’animo fiero e appassionato che gli fu proprio; e davvero è cosa curiosa che laddove, in altre latitudini, l’esercizio alto e rigoroso degli studi letterari e dell’insegnamento si unisca al fervore creativo si gridi al miracolo (si pensi soltanto ai nomi di Tolkien e di Lewis in Inghilterra), da noi evochi un’aria ammuffita e retorica. 



Di certo, Carducci non fu esente da colpe per la costruzione del suo mito; si pensi al furore giacobino che attraversa la prima produzione (e non solo la prima), la quale bastò a fornire materiale sufficiente all’arsenale del laicismo più vieto e truculento: si va dall’Inno a Satana, nato come brindisi massonico (“Salute, o Satana,/ o ribellione,/ o forza vindice/ de la ragione!/ Sacri a te salgano/ gl’incensi e i voti!/ Hai vinto il Geova/ de i sacerdoti”; al greve giudizio su Cristo, dell’ode In una chiesa gotica (“Cruciato martire tu cruci gli uomini,/ tu di tristizia l’aer contamini”), poi dipinto come il “galileo di rosse chiome”, responsabile della fine dell’età eroica, in Alle fonti del Clitumno.



Tuttavia, esiste anche un altro Carducci, ed è quello che adesso ammiriamo di più e che ancora ci commuove; quello dell’esplorazione delle ombre e del nostro cuore inquieto e moderno. Il punto di svolta, anche se non definitivo, va ravvisato in un avvenimento preciso: la morte del figlio Dante, di soli tre anni, nel novembre del 1870. Ne scrive in una bellissima lettera all’amico Chiarini, il 14 novembre di quell’anno, all’interno di un epistolario da considerare fra i più alti della nostra letteratura. “Quando mi veniva innanzi, era come se mi si levasse il sole nell’anima; quando posavo la mano su quella testa, scordavo ogni cosa trista, e l’odio, e il male; mi sentivo allargare il cuore, mi sentivo buono”. Ed ancora: “Pare, a sentire certuni, che la morte di un bambinetto di tre anni debba esser una miseria comportabile. Non è mica vero: vanno via tre pezzi della vita”. 



Un fatto tragico ha il potere di ristabilire le gerarchie e di farci capire ciò che conta davvero: al di là delle pose enfatiche e declamatorie, l’uomo, solo con se stesso, intravede le sue esigenze più profonde. Il nostro pensiero corre alle splendide poesie di Ungaretti dedicate al figlio Antonietto ne Il dolore, ma anche alla reazione provata da Roland Barthes quando vide morire la madre; fu un fatto che lo portò a rompere con l’arroganza dei suoi schemi intellettuali, per aprirsi alla “simpatia con l’Altro”. Fu quindi un “semplice avvenimento, intimo e infimo” e non una riflessione intellettuale, commenta Alain Finkielkraut, a spingere Barhes ad allargare la ragione. 

La riflessione sulla sua drammatica esperienza dettò a Carducci i versi altissimi di Funere mersit acerbo e, ancora di più, di Pianto antico. Rileggiamo insieme quest’ultima poesia.

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.

Da un fragile spunto, offerto dall’antico poeta greco Mosco, escono questi versi, i quali “non potevano scaturire che da un trauma lancinante”, scrive Pasquini; essi possiedono la levità classica di un epigramma sepolcrale e insieme la struggente elegia di un compianto. Si noti lo stacco lieve e netto dell’incipit con la mano scolpita del bimbo e la chiusa straziata su quell'”amor”, a dire l’ultima invocazione, l’ultimo grido levato al bambino. Così, in Funere mersit acerbo, il figlio volgeva il capo “al dolce sole”, nell’atto di “chiamar la madre”. Era un pianto antico e moderno, che aveva afflitto tanti padri nel corso dei secoli, a cui dava voce, se non consolazione, la grande poesia. Dall’ascolto di questa voce, nascerà, di lì a poco, il capolavoro Alla stazione in una mattina d’autunno.

Giosuè Carducci, abbandonata la maschera stentorea del “grande artiere”, scioglieva così il canto del suo abbandono e del suo grido.