Si parla molto del film The revenant, ultima opera del regista Alejandro González Iñárritu — già premio Oscar come miglior film lo scorso anno con il bellissimo Birdman. È un film di cui si chiacchiera facilmente, per via di quell’Oscar come miglior attore protagonista che Leonardo Di Caprio non ha ancora mai vinto e che stavolta, pare, riuscirà ad aggiudicarsi. Ma The Revenant è anche un film che, come sempre dovrebbe fare l’arte, consente di guardare e mettere a fuoco certi punti. Tanto più che la vicenda è di per sé quasi banale: a inizio Ottocento, il cacciatore di pelli Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) viene brutalmente ferito dall’attacco di un grizzly nel corso di una battuta di caccia invernale nei boschi del North Dakota. Il suo gruppo, credendolo morto, lo abbandona privo di sensi e prosegue. Gran parte del film è il tentativo, apparentemente disperato, di sopravvivere e ritornare all’accampamento: un percorso dove a un ostacolo ne succede un altro, che ogni volta sembra essere quello definitivo e insormontabile.
Innanzitutto, The Revenant torna a mettere a tema quello che è uno dei cardini dell’arte occidentale, secondo una parabola che parte dai graffiti murali nelle caverne: il conflitto fra l’uomo e la natura. Quello che coinvolge lo spettatore non è una colorazione psicologica particolare né dei personaggi particolarmente carismatici (il film ha pochissime battute e il testo recitato potrebbe essere contenuto in cinque pagine), ma il dramma di un uomo che si trova in un mondo che non è quello che lui vuole — né lui pretende che lo sia. È una questione che può sembrare banale e invece non lo è: avviene qui il mondo come fatto irriducibile, la cui irriducibilità è testimoniata proprio dalla lotta feroce che scatena. Il rapporto fra l’uomo e la realtà non è pacifico né armonico — è un dramma in cui non si è soli. Il mondo è altro dal protagonista. E lui lo sa. Ogni ostacolo non è solo dolore, ma anche meraviglia. Quello che stupisce della sopravvivenza di Glass non è la sua fortuna (o la sua scalogna), né il suo vigore fisico: è piuttosto la sua indomabilità, la potenza inesauribile del suo desiderio di vivere che gli ostacoli non mortificano, ma anzi rivelano in tutta la sua inesorabile grandezza.
È questo infatti il secondo punto che The Revenant fa emergere con forza: cosa muove l’uomo, di che natura è il suo desiderio. L’attacco di un orso, un inverno glaciale, la ferocia degli indigeni, la profondità delle ferite non fermano la dinamica di questo desiderio, ma la inverano: è una lotta in cui l’uomo acquisisce una maggiore, più profonda coscienza di che cos’è il suo essere uomo, e s’inoltra in un mistero che lo attraversa e lo sovrasta.
Di Caprio meriterebbe l’Oscar non foss’altro che per quegli sguardi, in cui la rabbia della continua mortificazione cede il passo allo stupore di sapersi vivo e di volere ancora essere vivo. C’è un desiderio inarrestabile di vita che neanche la natura spiega. Quando il protagonista arriva ad affrontare il suo nemico — uno straordinario Tom Hardy — questi gli chiede: “Hai fatto tutta questa strada per vendicarti?”. Smentendo così decenni di cinema perlopiù americano (non sarà forse un caso che questa intuizione venga da un regista come Iñárritu che è messicano), dove intere parabole umane venivano spiegate solo con il desiderio di vendetta, la brama di rifarsi da sé una giustizia. Qui questo presupposto viene prima accennato e poi smentito: lo sguardo di Glass si appanna, si perde. No, la vendetta non basta, la rabbia non spiega. “La vendetta è nelle mani di Dio”, gli hanno detto. C’è qualcos’altro in ballo, che non viene mai nominato (quasi nulla qui viene nominato), ma lo si presente, in quella luce e in quei cieli e in quelle stelle e in quei boschi, che il desiderio di vita accende di un possesso ancora più pieno e profondo.
The revenant mette in scena anche un terzo fatto, più specifico, ed è una certa specie di speranza: una speranza non di un aiuto che venga dall’alto e sostituisca la libertà, ma una speranza di un miracolo che accada dal di dentro della realtà così com’è — nel fango, nel gelo, nel sangue, nel dolore, e non a prescindere da questi. È una forma della speranza (e della memoria, lo capirà chi vedrà il film) che implica anche una certa concezione dell’io: una lotta drammatica per sopravvivere in cui sempre più chiaro emerge che il fine della vita non è vivere, ma qualcosa d’altro, qualcosa d’ulteriore, che la sofferenza paradossalmente non oscura, ma rende ancora più desiderabile e più vero. Lo sguardo di Di Caprio al termine del film non è un appagamento né una fine: è — in un modo o nell’altro — un inizio.