Il dibattito sui progetti di legislazione in tema di unioni civili e nuovi diritti ha scatenato nelle ultime settimane opposte tifoserie. Che fare? Come muoversi e agire, in questo preciso istante in cui si prendono decisioni così gravi e delicate, anche sul piano simbolico degli indirizzi da dare alla vita pubblica del Paese? Si può tentare di incidere in modo efficace sugli orientamenti assunti dalla politica? La piazza è il luogo più adeguato per difendere i valori?
Nel proliferare di aut aut che hanno rinfocolato aspri conflitti, anche la coraggiosa presa di posizione di don Julián Carrón ha corso il rischio di finire risucchiata nella bruciante polemica di corto respiro, vedendosi depressa nella sua vera portata. Mi sembra del tutto evidente, infatti, che la questione messa all’ordine del giorno oltrepassa decisamente la controversia sul Family day.
Nelle parole di Carrón, troviamo un più che esplicito invito a non lasciarsi imprigionare in una pura logica di schieramento per combattere l’errore che si manifesta in un disegno di legge sul quale si possono fare molte legittime riserve. La pressione dell’emergenza viene colta, piuttosto, come rude occasione che costringe a ridiscutere a fondo la propria identità di uomini credenti. Non siamo impermeabili al mondo che corre lungo le sue strade intorno a noi. La realtà è una sfida continua, che ci interpella. Volenti o nolenti, ci provoca, ci mette di fronte a scenari del tutto impensabili fino a pochi decenni fa, e in questo modo ci obbliga a rideciderci, in modo radicale, su come la novità dell’esperienza cristiana possa innestarsi nelle fibre logorate della società del nostro tempo: una società così contraddittoria, sfuggente, in larga parte anche ostile, ma che è, in ogni caso, il nostro mondo, l’unico in cui si è chiamati a rendere presente quello che siamo.
Fuori di qui, c’è solo la contrapposizione di una verità che si cristallizza negli schemi del passato e che combatte, per così dire dall’esterno, la modernità vista come un transatlantico alla deriva, sbrecciato da ogni lato e vicino ormai al collasso finale. L’identità che si rinchiude nel bozzolo delle sue granitiche sicurezze e rifiuta di aprirsi alla verifica continua di sé stessa, alla sua riconversione, è un’identità che preferisce smettere di crescere, e che senza accorgersi si lascia catturare dal culto delle ceneri da museo, invece di lanciarsi nella fresca baldanza di una autenticità da riguadagnare a ogni passo come conquista, attaccata alla sua origine ma non schiacciata nella ripetizione rancorosa di forme storiche e ideologiche non più adeguate alla realtà implacabile dell’oggi. Il pensiero, se è vivo, evolve, si perfeziona, matura. Dovrebbe essere così anche per il pensiero cristiano. Se per sentirsi integro e inattaccabile si blocca, degenera in uno spirito di conservazione tendenzialmente intollerante e nemico di ogni novità positiva (magari anche di quella che porta il nome di papa Francesco).
Il giudizio di Carrón può certamente essere discusso e criticato, se si hanno motivazioni di altrettanto elevato livello da contrapporgli. Ma non lo si può sfigurare, riducendolo a uno stratagemma di tattica occasionale su singole scelte contingenti. Se si vuole davvero entrare nel merito, la prima cosa da riconoscere è che il suo intervento viene da lontano e aiuta a guardare al problema dell’oggi nel suo contesto d’insieme, con uno sguardo globale, senza la miopia di fermarsi solo alle conseguenze delle decisioni da prendere in una specifica emergenza. Le idee portanti, le parole chiave, persino l’armamentario delle citazioni di sostegno si ritrovano già raccolti e ancora più distesamente articolati nel libro che Carrón ha pubblicato negli ultimi mesi del 2015. Ne La bellezza disarmata rifluiscono, poi, testi e interventi degli anni precedenti, attraverso i quali ha cominciato a disegnarsi una riconsiderazione intelligente e acuta, ricca di aspetti originalmente stimolanti, su come il fatto cristiano può entrare in rapporto con il mondo della destrutturazione post-moderna e “incarnarsi” in un nuovo dialogo con le attese e i desideri dell’uomo contemporaneo, rimasto senza guide e senza più certezze a cui aggrapparsi.
Il tema del crollo delle evidenze, la crisi antropologica del soggetto, la riapertura della centralità del “senso religioso” come istanza di appagamento e di pienezza, sono implicazioni più volte riprese e approfondite. Don Carrón ne ha parlato ripetutamente nella sua opera di insegnamento. Ne ha fatto oggetto di tanti suoi contributi pubblici, su giornali e riviste, a cominciare, per fare un esempio, dall’impegnativo discorso di presentazione del documento di Cl in vista delle elezioni europee della primavera 2014. Non si può fingere che non esistano tutte queste premesse, questo lungo e paziente cammino di messa a fuoco che va avanti da tempo: è il lavoro di un pensiero e di una ragione che, per essere veramente tali, non possono che riflettere in primo luogo su sé stessi, paragonandosi senza sconti con la realtà che hanno di fronte.
Schematizzando al massimo, forse si può dire che la chiave di volta di questo sforzo di chiarificazione sulle forme della presenza cristiana consiste nell’accettazione di un dato primordiale di realismo: la coscienza religiosa si cala nella trama oggettiva della condizione umana a cui si rivolge, e ormai il mondo dell’uomo di oggi ha lasciato cadere la sua antica ossatura costruita su un cemento cristiano. I valori “naturali” sono diventati quasi irriconoscibili: appaiono a molti capovolti in una forzatura che ingabbia perché non esiste più la “cristianità” e ci siamo inesorabilmente inoltrati nel mondo del meticciato culturale, frantumato al suo interno, senza più codici condivisi in un unanimismo solidale. Siamo stati catapultati nell’era della società “secolare”. E questo impone un modo nuovo di coniugare la passione del fuoco religioso con l’appartenenza di tutti all’universo politico, etico e civile. Non ci sono più quadri comuni di riferimento a cui appoggiarsi. La verità diventa controversa e sul bene si proiettano visioni contrastanti.
Se è così — e la cronaca travagliata del presente ce lo documenta in modo sempre più impressionante — vuol dire, ultimamente, che siamo posti davanti a un bivio: o si rimane fermi a pensare che la società malata si redime puntellando gli schemi etici e le strutture sociali dell’ordine tradizionale messo sotto accusa, con una grande operazione apologetica di difesa e di riscossa (magari riconquistatrice); oppure ci si immerge fino in fondo nella babele della secolarizzazione post-cristiana, continuando, sì, a impegnarsi per umanizzare la vita pubblica e per rendere più ragionevole la disciplina normativa dell’esistenza collettiva, ma allo stesso tempo ridimensionando ogni residua pretesa di imposizione, per via di egemonia, dei valori ultimi, tradotti in schemi giuridici e di etica sociale vincolanti per tutti. Se si è sbriciolata la “società cristiana”, ogni progetto di ordine politico-legislativo immaginato coerente in modo esclusivo con i presupposti della coscienza religiosa contiene in sé il rischio di un sovraccarico dirigista della legge che pretende di sostituire e comprime il libero gioco delle volontà delle parti sociali, chiamate a incontrarsi nell’arena dello Stato “laico” per rinegoziare l’intero sistema delle regole e dei princìpi del loro convivere fra diversi. Il bene umano va tutelato, ma non si impone per decreto.
A monte delle discussioni attuali sulla legittimazione dei legami omosessuali, sta il macigno di una decisione da prendere in rapporto alla valenza “politica”, in senso generale, della coscienza di fede. Si può restare nella lunga scia del “medievalismo cristiano” difeso dal cattolicesimo antiilluminista e intransigente di Sette-Ottocento, suggestionati dalla critica antimoderna e “conservatrice” che arriva fino ai sogni di “nuova cristianità”, coltivati da filoni vivaci e battaglieri del cattolicesimo militante dell’ultimo secolo, fino almeno agli anni di crisi del Vaticano II. Oppure si può accogliere come una circostanza che costringe a cambiare rotta la frattura definitiva tra l’ordine sociale mondano, con i suoi poteri e le sue strutture, e l’ordine della communio cristiana fondata sulla dialettica della grazia e della fede. Questo — nota bene — non vuol dire affatto ripiegare nell’intimismo “religioso” di una identità cattolica impaurita e subalterna nei confronti della dittatura dei desideri e dei diritti delle libertà moderne. Vuol dire accettare che esiste una differenza precisa di ambiti e di finalità tra l’ordine politico-civile del caotico pluralismo globalizzato e l’ordine dell’esperienza di vita nuova che discende dall’incontro con la salvezza fatta carne di Dio. Vuol dire scegliere di “stare dentro” questo “dualismo strutturale” fra Chiesa e governo della società umana che non è una supposta eresia neoprotestante, ma uno dei fulcri fondamentali del magistero di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI in tema di teologia “politica” (se lo si vuole assecondare con fiducia, nella sua interezza).
“Dualismo” che però, e non è ovvio, non può essere separazione, ma spazio dell’incontro tra logiche diverse, che devono intrecciarsi e confrontarsi a vicenda per contribuire, insieme, a modellare l’universo di un “buona società” (Scola), capace di includere al suo interno tutte le sue diverse anime, anche in conflitto tra di loro. Ed è nello scenario aperto creato dal pieno recupero del senso della distinzione tra l’ordine di Dio e l’ordine di Cesare, con il ritorno alla rifondazione dalle sue radici della coscienza che guida l’agire degli individui, legandosi al primato originario della libertà e della persuasione in quanto pilastri di ogni vera condotta umana indirizzata al suo bene ultimo, che acquista tutto il suo luminoso risalto l’idea di riproporre l’essenza del fatto cristiano non come schema etico preconfezionato, ma come testimonianza viva che prorompe dal fascino di una bellezza da sperimentare, che sollecita la libera adesione dell’io che si converte: senza più tribunali e inquisizioni alle sue spalle, senza obbligato consenso esteriore, nel rischio audace di una schietta semplicità trasfigurante, che “si offre” a tutti anche andando incontro allo scandalo doloroso del rifiuto.