Il 23 aprile 2016, dopo aver celebrato nel 2015 i 450 anni dalla nascita di William Shakespeare (e poco conta che non si possa stabilire con esattezza il giorno della  nascita, gli inglesi (e non solo loro) celebreranno i 400 anni dalla morte del loro figlio più famoso, il Bardo di Stratford-upon-Avon; nella cittadina dove nacque (e dove anche si spense, nel giorno di St George, patrono nazionale), il weekend del 23 e 24 sarà l’occasione di un weekend di “family fun” con sfilate nelle strade, pompa e ovviamente performances.



Dopotutto, non fu forse il Bardo, assieme agli altri grandi autori dell’età elisabettiana e giacobita, sopravvissuti, a parte Christopher Marlowe, non dove il teatro conta, cioè sulle boards, ma nelle accademie, ad inventare lo show business?  

Una struttura circolare di legno, con un cortile interno per i posti in piedi, tre gallerie per i posti a sedere, una piattaforma in parte coperta, il tutto collocato in una zona periferica, la South Bank, raggiungibile per lo più solo remando across or along the Thames, attori solo maschili (per commedie d’amore e tragedie di stato in egual misura), trombe come accompagnamento musicale costante (e praticamente unico), scenografie per lo più assenti, un giovanotto della provincia, mai sedutosi sui banchi di Oxford e Cambridge, a redigere a ritmi sostenuti le opere che dovevano convincere il pubblico eterogeneo della Londra di fine Cinquecento/inizio Seicento; ma anche vincere la concorrenza decisamente agguerrita di altri teatri pubblici ed anche privati, e anche (se possibile) guadagnarsi il favore reale, ed ovviamente senza alcuna sovvenzione statale, queste le premesse per il più grande show business e la più affascinante esperienza di bellezza che il teatro abbia finora (non disperiamo della fantasia di Dio, se ci servisse un altro Shakespeare ce lo manderà) mai conosciuto, al punto che Harold Bloom, critico letterario dalle intuizioni folgoranti e sempre discutibili, definì il Bard “l’inventore dell’umano”.



E se qualcuno non credesse che le condizioni di lavoro per Willy furono così “svantaggiose”, non c’è bisogno di tuffarsi in studi libreschi; se piace viaggiare, ci sono almeno due viaggi possibili. Il primo è una visita a Londra; dopo aver ammirato St Paul si attraversa il pedonale Millenium Bridge e si arriva alla Tate Modern (che val bene una visita, non vi inganni l’apparenza di centrale elettrica dismessa). A sinistra della Tate c’è una piccola struttura di legno, è il Globe ricostruito; da maggio apre la stagione teatrale, che è decisamente meglio del museo pur lodevole, e se si sta in piedi si hanno i posti migliori (non per comodità ma per vicinanza al palco, ammesso di arrivare presto). Come per il Teatro di Siracusa, l’esperienza oggi del “teatro che fu” vale la pena.



Il secondo viaggio possibile è virtuale, e non è certo quello del Globe ricostruito sul sito del teatro, anch’esso lodevole, ma troppo filologico. Meglio invece l’inizio di Henry V di Laurence Olivier, con una panoramica area della Londra del Cinquecento e poi zooming sulla South Bank ed infine sulla bandiera che si leva ad annunciare l’inizio del play, l’ormai conosciutissima venditrice di mele od arance che dir si voglia a circolare fra il pubblico in attesa, ed infine uno spettacolare backstage con attori che tracannano birre prima di entrare in scena ed un esilarante boy che esce con un cartello (!) per  spiegare al pubblico dove l’azione avrà luogo. Se qualcuno preferisce l’inizio di Shakespeare in Love a cura di Tom Stoppard per rendersi conto di come fosse la Londra ed il teatro pubblico (si tratta del Rose, ma poco importa, la struttura era simile, e Shakespeare lavorò lì prima di passare al “suo” Globe), troverà non la stupita ammirazione di un grande attore di teatro, Laurence Olivier, per il grande miracolo dei piccoli mezzi, ma la sagace allegria di un drammaturgo contemporaneo che ironizza su tutti, ed intendo tutti, i cliché della critica letteraria relativi al Bardo. Esilarante, se trovate qualcuno che vi spiega cosa ci fa Willy su un lettino di apothecary (l’equivalente del medico) a raccontare le sue difficoltà creative nella prima seduta di psicanalisi della storia per il creatore, a teatro, della più grande vittima (per Sigmund Freud) del complesso di Edipo: Hamlet, the Prince of Denmark, ed ovviamente del di lui “padre” (visto che si suppone che Shakespeare abbia recitato la parte del Ghost, Hamlet the father).

Insomma, fate come gli inglesi; non chiudete il Bardo fra le pagine di un libro, non fatene “a lavender spray (…)/ Pressed between yellow leaves of a book that has never been opened” un rametto di lavanda/ pressato fra le foglie gialle di un libro che mai fu aperto” (Thomas S. Eliot, Four Quartets), ma una esperienza viva; non disdegnate il cinema, che a Shakespeare ha rubato tutto, e magari segnatevi man mano le date del 2016 su un Shakespeare-calendar, ed appuntateci gli appuntamenti che man mano cercherò di segnalare, per decidervi ad andare a Londra, ed anche a Stratford-upon-Avon. 

Primo appuntamento, il 23 e 24 aprile; quattro chilometri del Thames path fra il Westminster Bridge e il London Bridge trasformati dal Shakespeare’s Globe theatre in un cinema all’aria aperta con 37 nuovi films, dieci minuti l’uno per ogni opera del Bardo, in ordine cronologico (e se non vi troverete d’accordo con l’ordine proposto rispetto a  quanto avete studiato a scuola, vi rivelo un segreto, nessuno sa quale sia quello giusto! e se non sarete d’accordo con le location, Shakespeare non ne sa nulla, credetemi!). Per vedere tutto il ciclo ci vorranno almeno sei ore, ma come suggerito dagli ideatori, “not counting coffee breaks and walking from one screen to the next“, “senza contare le pause per il caffè e andarsene a spasso da uno schermo al successivo”. Dopotutto, sarà primavera, e you’ll be in London, won’t you?

(1- continua)