Cristo crocifisso; Cristo sofferente, spezzato, sprezzato; Cristo che per amore dell’uomo accetta una crudele agonia. È questo il riferimento principe di san Francesco d’Assisi; è questa la decisiva compagnia che abbraccia, nutre (come sale che insaporisce e nel contempo tiene viva la carne) il suo tanto breve quanto denso cammino.
Dall’appello accolto davanti al crocifisso di San Damiano (“va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”) fino all’esperienza dolorosa e sublime delle stigmate, il muoversi di Francesco non conosce altra via che la croce, con tutto ciò che una simile scelta può portare con sé. Non sbaglia Giotto nella Basilica Superiore di Assisi quando, nell’episodio del presepe di Greccio, pone la mangiatoia sotto una grande croce: con un’unica immagine riesce a richiamare non solo lo scopo dell’Incarnazione, ma anche la preferenza di Francesco per i momenti di maggiore debolezza del Dio fatto uomo: la primissima infanzia e l’agonia.
In contrapposizione alle idee docetiste dei catari, Francesco difende la componente umana di Cristo (dal grembo di Maria — afferma nella seconda recensione della Lettera ai fedeli — “ricevette la vera carne della nostra umanità e fragilità”). Il pensiero del Verbo che si è fatto carne, che ha svuotato se stesso (la kénosis) fino a morire uomo tra gli uomini, ultimo tra gli ultimi, deriso, odiato, condannato a una pena capitale infamante, è sempre presente nella sua testa e nei suoi discorsi; e, ovviamente, anche nel suo vivere, ché il limitarsi a descriverlo a parole — lo dichiara nelle Ammonizioni — sarebbe stato per lui una vergogna. Francesco alter Christus: la sua vita, giorno dopo giorno, stazione dopo stazione, dice questo; e a confermarlo arrivano anche le stigmate.
L’eredità che lascia ai suoi seguaci si riassume in un’ideale di vita semplice, povera, nuda, che accetta con umiltà e letizia tutto ciò che viene da Dio, finanche “infirmitate”, “tribulatione” e “sora nostra Morte corporale”, in piena conformità al Vangelo. La croce pregata, predicata e vissuta da Francesco resta un pilastro anche per loro, e ben presto si avverte il bisogno di tradurla in una forma artistica adeguata. Quasi tutti i crocifissi del tempo proponevano un Cristo trionfante, impassibile, spesso con gli occhi aperti, in qualche caso persino sorridente, quasi che non provasse dolore, e non davano un’idea piena della realtà del Golgota. Gli eredi di Francesco vogliono altro; vogliono una rappresentazione verace, un’immagine che porti la gente a meditare a fondo il sacrificio del Figlio di Dio; e così, cercando qualcosa di più vicino alla lezione del loro maestro, finiscono per aprire definitivamente la strada all’iconografia del Cristo sofferente, nota all’arte già da qualche secolo ma adottata solo di rado.
Uno dei primi crocifissi di commissione francescana, se non addirittura il primo in assoluto, l’archetipo, è quello dipinto da Giunta Pisano su richiesta di frate Elia, purtroppo perduto. Da una lettera inviata nel 1624 dal vescovo di Assisi a Federico Borromeo sappiamo che era firmato, datato (1236!), che riportava l’effigie del committente (insieme, verosimilmente, a quella di Francesco), e che fino al terzo decennio del ‘600 trovava posto nella Basilica Superiore. Non doveva essere molto diverso dal crocifisso dello stesso Giunta Pisano che vediamo nel Museo della Porziuncola, da quello del Maestro di Santa Chiara nell’omonima chiesa assisana e da quello del Maestro di San Francesco nella Galleria Nazionale dell’Umbria: quindi, un Cristo nella sofferenza, con gli occhi chiusi, il volto affranto, il corpo piegato dal dolore.
Grazie alla predicazione e alle preferenze iconografiche degli eredi di Francesco, il Christus patiens guadagna sempre più terreno: diventa la norma.
Chi si aspetta che da quel momento i crocifissi francescani perdano ogni peculiarità rimarrà sorpreso nello scoprire l’inesattezza delle proprie previsioni. Essi, infatti, continuano (per secoli) a distinguersi dalle tipologie più diffuse in virtù di un evidente e convinto realismo. Attenzione: non si sta sostenendo che le immagini di Cristo in croce di una certa crudezza siano tutte, nessuna esclusa, debitrici di Francesco (la sofferenza del Golgota è centrale anche per altri protagonisti della storia della Chiesa, ed esistono casi nei quali il realismo è frutto soltanto della sensibilità dell’artista e/o del committente); si vuole semplicemente far notare come i crocifissi francescani nel descrivere l’agonia di Cristo si spingano sempre nel cuore della kénosis. Non è un caso che il più realistico dei suoi crocifissi Donatello lo realizzi per una (importante) chiesa francescana (si sta parlando, ovviamente, del famoso “crocifisso contadino” in Santa Croce a Firenze); e non è un caso neppure che tra gli autori dei crocifissi più aderenti al vero troviamo molti francescani (tra i più dotati, fra Umile da Petralia e fra Diego da Careri). La via aperta da Francesco accelera l’ascesa degli artisti al Golgota; seguire la lezione dell’alter Christus insegna a non temere la realtà della croce.