Non si spegne ancora l’eco del recente confronto televisivo sulla riforma costituzionale tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il prof. Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, che sembra aver segnato un punto a favore del primo. 

Il presidente del Consiglio è apparso senz’altro a proprio agio di fronte alle telecamere, abituato, com’è, a valorizzare al massimo l’immediatezza della comunicazione massmediatica che — per definizione — si addice poco al cosiddetto pensiero strutturato. Il primo, in particolare, ha insistito sui vantaggi in termini di costi della riforma avendo l’abilità, comunque, di rifuggire ogni insidia connessa ad un approfondimento tecnico del discorso sulla portata effettiva delle innovazioni recate dal testo costituzionale, dalla nuova versione del Senato alla posizione dell’esecutivo nella forma di governo parlamentare. 



Zagrebelsky, d’altra parte, ha tentato di argomentare in modo puntuale il dissenso verso questa riforma, nel metodo che si addice allo studioso. Su un punto, in particolare, delle molteplici considerazioni formulate da Zagrebelsky intendo soffermarmi (per le ragioni che tenterò di spiegare più avanti), ed è quello relativo alla cosiddetta deriva oligarchica dell’assetto organizzativo dello Stato che la riforma finirebbe per generare, eludendo la scelta costituente (giuridicamente non trattabile) in favore del principio di sovranità popolare. 



I timori espressi da Zagrebelsky sono certamente nutriti di un retroterra giuridico-culturale non comune, con cui lo stesso autore sembra rispondere alla domanda su che cosa sia una Costituzione e come essa vada interpretata, in particolare sull’incidenza del fattore politico nel contesto dell’analisi costituzionale. 

In questa direzione, il professore preliminarmente ha ribadito l’esigenza di fare i conti con un’idea funzionale di Costituzione, in grado di favorire il superamento di problemi pratici di ordine costituzionale attinenti alla vita di un determinato Stato. Dunque, una Costituzione in grado di assicurare in ogni momento l’equilibrio organizzativo tra i poteri fondamentali dello Stato e, così, l’effettiva limitazione del potere politico. 



Ma per realizzare tale funzione non basta considerare unicamente le prescrizioni della stessa Carta costituzionale; occorre invece tener conto di ogni altra regolamentazione — anche di rango non costituzionale — che con le prime realizzi un intreccio funzionale necessario così da descrivere esattamente l’effettiva dimensione dell’assetto organizzativo dello Stato (ad esempio legislazione elettorale, legge sul pluralismo dell’informazione, eccetera). Inoltre, la natura funzionale della Costituzione spinge alla considerazione anche del sistema politico complessivo che concorre a renderla effettiva e che, in qualche modo, sottende l’esperienza costituzionale. In questi termini, non è incongruo arrivare a ritenere che la “materia” costituzionale — intesa come il complesso dinamico delle normative che influenzano la conformazione e il funzionamento dell’unità politica dello Stato — possa rappresentare qualcosa di più e di diverso dalla sola Costituzione.

Le considerazioni che matura Zagrebelsky sulla suddetta deriva oligarchica costituiscono, dunque, l’esito di un metodo scientifico di analisi che non si ferma alla sola considerazione del dettato costituzionale, ma si estende al complesso legislativo che con quest’ultimo si pone in un intreccio funzionale indefettibile, attraverso cui soltanto può giungersi a definire ciò che oggi la Costituzione è. E questo sulla base della premessa che l’interazione di quest’ultimo con la normazione ordinaria di contorno rivela, in ultima analisi, il quadro effettivo del rapporto tra i poteri. 

In quest’ottica, dunque, le previsioni della riforma che avvantaggiano la posizione del Governo in Parlamento, delineando, ad esempio, percorsi certi di approvazione delle proprie proposte di legge, strettamente connesse ad una disciplina elettorale a forte impronta maggioritaria (quale è quella vigente per l’elezione dei componenti della Camera dei deputati), svelano i tratti di un disegno organizzativo chiaramente mirato a premiare soprattutto la maggioranza parlamentare e gli  interessi dalla stessa rappresentati. 

Nell’esposizione di un tale rischio, in definitiva, Zagrebelsky esalta e difende quella funzione garantista che appartiene all’essenza propria ed indefettibile del costituzionalismo quale processo politico e che si mantiene inalterata anche nel transito dalle Costituzioni liberali ottocentesche a quelle democratiche del secondo dopoguerra. Tale funzione non è, allora, da raccordarsi staticamente ad un modellino tratto dalle norme costituzionali (basti ricordare, del resto, a conferma di ciò, l’ esperienza della Costituzione tedesca di Weimar, del 1919) ma si misura anche alla stregua del fattore politico che conferisce vitalità e direzione di senso alla Costituzione. Anche in considerazione di tale fattore, pertanto, che è dinamico e presente nell’esperienza giuridica statale, va misurata l’effettività dell’equilibrio organizzativo dei poteri che è compito primario di ogni Costituzione democratica (tale mi sembra di poter ritenere fosse anche il senso del richiamo operato da Zagrebelsky alla Costituzione di Bokassa). 

Una lettura siffatta della riforma, proiettata su un ampio orizzonte normativo, può apparire “anomala” e, forse, sfuggire a chi ha meno dimestichezza con la scienza del diritto costituzionale e meglio si cimenta, invece, con la retorica della comunicazione politica, finalizzata alla ricerca del consenso popolare. Non sfugge, invece (o, comunque, non può sfuggire) alla schiera dei “tecnici” che pure propendono a favore della riforma, senza mai — occorre dirlo — giungerne ad esaltarne i contenuti innovativi. Non che sia impedito, in generale, di imbastire una qualche ragione, anche tecnica, in grado di giustificare e difendere i contenuti della riforma; può sorprendere, invece, la debole attenzione attribuita ai rischi di elisione del principio democratico che questa riforma reca con sé, evidenziati dalle argomentazioni esposte da Zagrebelsky. 

In conclusione, è difficile che il pensiero strutturato di un maestro del diritto costituzionale (titolo che indubbiamente va riconosciuto al professor Zagrebelsky) sia in grado di spostare masse di consenso — ma i rappresentanti di massa, insegna Hannah Arendt, spesso celano un insidioso, e anche pericoloso, retropensiero politico; né, forse, convincerà l’elettore, nella schiera dei cosiddetti studiosi, chi si affanna a declinare questa riforma come un modello di democrazia “decisionista”, fondato sulla ragione del numero piuttosto che sulla sostanza di un’argomentazione razionale. Resta il fatto, comunque, che i contenuti della “lezione” di Zagrebelsky impegnano tutti ad una riflessione onesta e disincantata sul senso della Costituzione, sulle sue funzioni in un mondo globalizzato ed attraversato dalle interdipendenze (economiche, finanziarie, normative), sulle aspettative che la stessa quale ordinamento giuridico fondamentale della comunità statale è chiamata a realizzare. Partendo da queste premesse, la riforma costituzionale non sembra mostrarsi come un vero passo in avanti nella costruzione di un assetto organizzativo dello Stato equilibrato ed efficiente.