Mondadori ha dato alle stampe il Meridiano dedicato a Seamus Heaney, irlandese premio Nobel per la letteratura, certo una delle voci poetiche più significative che il nostro tempo ci abbia regalato. Toccare la sua opera significa toccare i nuclei profondi del fare poetico, ma anche ingaggiare un corpo a corpo col tentativo di cercare il senso che abita la parola poetica fin dal suo nascere. Ne abbiamo parlato col curatore, Marco Sonzogni, che di quest’opera ha seguito la gestazione per lungo tempo.
Cosa significa, a tuo parere, l’uscita di un’opera come il Meridiano di Heaney? Qual è lo spirito che ti ha animato in questo lavoro?
Prima di parlare di me, parliamo di lui. Rivedo il suo volto mentre acconsente alla preparazione di un Meridiano della sua opera in versi. Conosce il prestigio dell’editore e della collana. E subito, con quell’umiltà che contraddinstigueva ogni sua parola, ogni gesto, si mette in dubbio. Ha davanti due exempla recenti: il volume con tutti i versi di W.B. Yeats — il poeta la cui grandezza è stata usata a misura della sua fino alla nausea — e dell’amico Ted Hughes. Stiamo parlando di due poeti a lui particolarmente cari, oltre che particolarmente grandi: piatti di una bilancia poetica, per così dire, su cui non dà per scontato di potersi poggiare, anche se tutto il mondo non esiterebbe un solo secondo ad autorizzarlo. E rivedo la smorfia affettuosa con cui chiude la conversazione: entrambi sono morti… Forse voleva farmi ridere, alleggerendo fin dall’inizio il carico di responsabilità che di fatto mi aveva ufficialmente messo sulle spalle; forse voleva mettermi in guardia: tempus fugit, e nel suo caso, per via di una generosità umana e professionale senza pari, la salute aveva purtroppo iniziato a preoccupare.
Ogni tanto rivivo la telefonata di quell’ultimo venerdì di agosto del 2013 (mattina a Dublino, sera a Wellington) che mi portò la notizia della sua morte. Anche se non volevo crederci, anche se lo avevo sentito la settimana prima, una parte di me non era sorpresa — quel sentimento, come dire, di qualcosa che sai che poteva succedere ed è successo. Eppure non riesco a darmi pace che non ci sia più, e che non possa vedere il volume che ha voluto, costruito e seguito con l’attenzione, dedizione e maestria con cui portava avanti la propria scrittura da quasi mezzo secolo. E se non lo può vedere lui il libro è giusto che non lo possa vedere neanche io! Mentre ti rispondo non ho ancora con me una copia del Meridiano, della cui effettiva esistenza (per me resta un sogno che forse si è avverato) mi hanno rassicurato non tanto le recensioni (in una il recensore parla più di sé che del libro…), ma gli amici lettori che con grande partecipazione e generosità lo hanno subito acquistato. Come esempio ti faccio quello di un’amica che conosco da poco tempo (ho conosciuto prima le sue poesie): nella foto che mi ha mandato, la sua mano di flautista e di poeta mi mostra il Meridiano sullo sfondo storico della sua città. Seamus le avrebbe subito scritto per ringraziarla, per dirle che in quel gesto risiedeva la vera poesia.
E allora ho fatto proprio così, pensando a lui e pensando a lei. Lo spirito che ha animato il mio lavoro di curatore è stato sempre e solo questo: mantenere fede alla consegna umana e poetica ricevuta, ricordandomi del primo donatore e di tutti i donatori grazie ai quali la poesia di Heaney continua ad essere letta, a meravigliare, a insegnare.
La poesia di Heaney, come tutta la grande poesia, sembra arrivare da un tempo lontanissimo e deflagrare poi nel presente, lontano dal chiacchiericcio accademico e dallo smalltalk letterario. Il fatto di darle una veste così ufficiale e blasonata non rischia di portarla lontana dalle sue radici?
Anche in questo caso preferisco far parlare lui. Proprio in quella che sarebbe stata la sua ultima poesia, Tenendo il tempo (In Time), Heaney dà dimostrazione di come nei suoi versi si condensino sempre il passato, il presente e anche il futuro — in questo caso, la premonizione della propria morte, avveratasi purtroppo dodici giorni dopo la stesura di quello che di fatto è un inno alla vita nella persona dell’ultima nipotina arrivata in casa Heaney, Síofra, cui la poesia infatti è dedicata:
Energia, equilibrio, esplosione:
ascoltando Bach
ti ho vista tra molti anni
(più di quanti me ne saranno concessi)
non più bimba dal passo incerto,
donna adulta e sicura.
Mi tiene al passo il tuo piede
nudo sul pavimento; la forza
che un tempo sentii salire
dal nostro di cemento
ti accarezza la pianta e il tallone,
e qui ti radica davvero alla terra.
Un oratorio
ti rappresenterebbe a modo:
energia, equilibrio, esplosione
in gioco solamente per se stessi,
ma per ora noi danziamo lievemente
tenendo il tempo, e silenziosamente.
Questa poesia ha una matrice privata, e quindi passato, presente e futuro sono legati naturalmente, per così dire, nel susseguirsi delle generazioni all’interno di una famiglia: in questo caso i protagonisti sono nonno e nipotina. Ma in tutta la poesia di Heaney agisce questo incredibile “collante” — una sorta di voltaggio esistenziale primordiale, archetipo —che da un lato fissa i pensieri e le parole del poeta nell’hic et nunc di una particolare occasione, usando un vocabolo montaliano, ma dall’altro lo libera da un tempo e da uno spazio precisi. Volendo banalizzare, dall’incontro del particolare nell’universale scaturisce questa qualità dei versi di Heaney: che arrivano da un tempo lontanissimo e deflagrano poi nel presente come hai detto benissimo tu. A me piace paragonare la poesia di Heaney ad una pianta (e ce ne sono tante nella sua opera in versi) le cui radici scendono e si insediano nel terreno del passato e il cui tronco, cioè il presente, le traduce i rami, che si spingono al cielo del futuro dandocene prospettiva. Non dico niente di nuovo: l’Accademia di Svezia ha motivato il conferimento a Heaney del Premio Nobel per la letteratura proprio perché la sua poesia, in un continuum di grande bellezza lirica e profondità etica, illumina l’attualità del passato e la straordinarietà del presente. Ti faccio un esempio testuale piccolo, ma significativo: “hwæt”, la parola con cui inizia Beowulf e che — come ha recentemente spiegato uno storico della lingua inglese, George Walkden — è sempre stata tradotta in modo incorretto, anche da Heaney. La colpa pare essere di uno dei fratelli Grimm, Jakob, che nel 1837 ha ridotto l’importanza di quell’attacco a pura esclamazione. E così è stata tradotta: “What ho!”, “Hear me!”, “Attend!”, “Indeed!”.
A me la resa di Heaney, “So!”, piace molto proprio perché agisce da connettore narrativo: implica un già detto, quindi un passato, che va tenuto in considerazione per capire il modo in cui sono andate le cose, e quindi il modo in cui vanno e andranno. E poi so è una parola ordinaria, colloquiale, usata con la frequenza con cui noi in italiano usiamo quindi o allora, o cioè. In questa scelta, filologicamente corretta che sia o meno, c’è tutto un modo di pensare, agire e dare testimonianza di quei pensieri e di quelle azioni. Ho quindi cercato di preservare queste caratteristiche nella curatela del Meridiano. E al di là di tutti i cliché negativi che la accompagnano dalla Torre di Babele ai nostri giorni, la traduzione è in primis una testimonianza che si attua tra ricordo e invito a ricordare. Con questo atteggiamento, il passaggio da un terreno linguistico e da un habitat culturale all’altro non compromette, ma rinvigorisce le radici della poesia. In quella che per tanti resta un’esperienza di vulnerabilità e di perdita troviamo invece l’antidoto più intimo ed efficace contro chiacchiericci da salotto letterario, smalltalk accademici e slogan editoriali.
Com’è nato il tuo rapporto con Heaney? Cos’ha voluto dire portare a termine questo lavoro dopo la sua morte?
L’ho conosciuto di persona alla Yeats Summer School di Sligo nell’agosto del 1995: sia lui che la moglie Marie erano nel programma di letture pubbliche che affianca le lezioni e i seminari su Yeats. Ho ancora impresse negli occhi l’attenzione e l’affetto con cui seguì la lettura di Marie (la sua riscrittura di antichi miti e leggende irlandesi,Over Nine Waves, era uscito da poco). Una sera, mentre cercavo un bagno nel Silver Swan Hotel, dove si era appena concluso uno degli eventi yeatsiani, con una piroetta simile a quella con cui Dante passa da un emisfero all’altro, e dall’Inferno al Purgatorio, ho evitato in extremis uno scontro frontale con il prossimo vincitore del Premio Nobel della letteratura. Ma ho potuto evitare di scusarmi e presentarmi. Quell’incontro ha dato inizio a un rapporto che si è cementato nei diciotto anni in cui ho avuto l’immeritato privilegio di frequentarlo; un rapporto che mi ha permesso, mentre imparavo a conoscere un uomo e un poeta di grandezza assoluta, di imparare a conoscere me stesso. Come si può ripagare un dono simile? Portare a termine il Meridiano è stato un tentativo di dirgli grazie.
Nell’opera di Heaney emerge molto forte questo tema del going Westwards, dell’andarsene verso l’ignoto per cui si prova anche attrazione. Non trovi che possa essere una definizione molto forte della poesia, in questo tempo?
Assolutamente. Un ignoto, però, che può essere molto vicino, geograficamente e culturalmente, verso l’ovest come verso l’est; uno straniamento che attraverso la conoscenza (a volte dolorosa, persino violenta) di ciò che è altro da noi porta alla conoscenza di sé: una vera e propria traduzione esistenziale che è particolarmente intrinseca alla condizione identitaria irlandese.
Per approfondire il discorso bisognerebbe però partire da lontano e andare lontano… Cito allora le parole che James Joyce mette in bocca a Stephen Dedalus alla fine di A Portrait of the Artist as a Young Man, quando gli fa dire che il modo più rapido di raggiungere Tara (sede, non lontana da Dublino, degli antichi re dell’Irlanda gaelica) è stato passando da Holyhead (città portuale sulla sponda gallese del Mar d’Irlanda): “the shortest way to Tara was via Holyhead”.
Basti pensare, per fare due nomi ovvi, a Joyce, appunto, e a Beckett. Forse anche per questo i tanti viaggi presenti nella poesia di Heaney sono sempre viaggi all’interno di una psiche e di un’anima che sanno di essere alla ricerca di se stesse. La poesia (la poesia vera, per trita che sia questa espressione di valore) è uno strumento potentissimo attraverso il quale compiere questo percorso di riconoscimento: non concede alibi, espone e può addirittura portare a un cammino di conoscenza.
Come tutte le grandi opere, quella di Heaney sembra avere una forza di creazione cosmologica, passando per l’agricoltura, l’archeologia, la politica — come tracce di un viaggio (anche in macchina, guidando, come si diceva sopra, westwards) in tutta la vicenda umana. Quali sono, per te, alcune delle parole chiave per farsi guidare in questo universo di Heaney?
Comincerei dalle fondamenta, gli elementi fondanti: terra e aria, inframmezzate da flussi d’acqua e bagliori di fuoco. E poi con le sue qualità espressive: integritas, consonantia, claritas. E poi con il suo modus operandi:getting started, keeping going, getting started again. E poi con le sue colonne portanti: umiltà, fermezza, generosità.
Dalle note al Meridiano scopriamo molti intrecci della poesia di Heaney: da Dante a Katherine Mansfield, da Virgilio a Mandel’stam, da Beowulf a Patrick Kavanagh, da Robert Henryson a Czeslaw Milosz per citarne alcuni. Che rapporto aveva coi maestri?
Heaney leggeva tantissimo, e non solo poesia. Lo immaginavo, ma la curatela del Meridiano mi ha dato la possibilità di addentrarmi (anche con la sua guida, in certi casi indispensabile) nel labirinto di letture che pervade la sua scrittura. Non gli ho mai chiesto come si rapportasse verso quelli che considerava maestri perché traspare dalle sue interviste e dai suoi scritti critici, come anche dalle sue poesie, del resto — penso a Station Island, per esempio — come la sua umiltà gli avesse conservato nei confronti degli altri scrittori, del passato come suoi contemporanei (e non solo quelli per lui più importanti e influenti), l’atteggiamento di rispetto e di gratitudine dello studente, dell’apprendista. Ciò non toglie che Heaney non avesse consapevolezza nei propri mezzi e nel proprio valore, anzi. Ma parte della sua grandezza era proprio nel non sentirsi affatto un grande, nemmeno dopo tutti i riscontri di critica e di pubblico che aveva ricevuto in quasi mezzo secolo di scrittura.
Che cosa pensava del rapporto tra letteratura (opera) e politica?
Questo è un argomento inevitabile su cui sono state dette (anche recentemente) cose molto superficiali. Mi limito a due esempi. Nel 1972, dopo un anno trascorso in California all’Università di Berkeley, si rende conto di non potere, di non volere restare in Irlanda del Nord, corrosa dalla violenza settaria: una situazione che sta degenerando di giorno in giorno, e che sta infettando anche l’arte. Lascia allora Belfast per Dublino, isolandosi a scrivere in un cottage nella campagna di Wicklow, senza la sicurezza di uno stipendio, ma con la sicurezza della sua scrittura. Un gesto di coraggio e di indipendenza, oltre che di integrità artistica, che gli è costato tante critiche e tanti dispiaceri. Quanto succedeva in Irlanda del Nord restava comunque presente nei suoi pensieri e nelle sue poesie: basta leggere North (1975) e Field Work (1979), le prime due raccolte scritte, per così dire, dall’esilio dell’altra Irlanda.
Anni dopo, quando il percorso di pace tra la maggioranza protestante e la minoranza cattolica aveva fatto enormi passi avanti, arrivando in prossimità di una svolta storica, un amico del poeta viene assassinato. La matrice è inequivocabilmente politica. Heaney, che si trova all’estero, scrive una lettera durissima che esce su un quotidiano locale. Ho una copia di quel numero di quel giornale: per puro caso mi trovavo non lontano dalla cittadina in cui ebbe luogo quella ricaduta di violenza, e le parole di Seamus mi aiutarono ancora una volta a dare un senso a qualcosa che sembrava non averne. Ecco: con la sua poesia Heaney riusciva sempre a trovare e a mostrare un senso alla res publica, alla politica, soprattutto nei momenti più bui. Non aggiungo altro, perché non mi compete. E poi nel discorso Nobel, Crediting Poetry, Heaney dice tutto ciò che c’è da dire su questo complesso e delicato argomento.
Tu sei anche insegnante e poeta. Che spazio di resistenza pensi che si debba insegnare, attraverso la poesia, e quale speranza si può seminare?
Riverbera, in questa domanda, l’interrogativo che chi scrive, non solo poesia, prima o poi arriva a porsi: la letteratura fa succedere qualcosa, concretamente? Secondo me sì, e Heaney affronta questa questione proprio nel discorso letto a Stoccolma in occasione del conferimento del più prestigioso premio letterario, che è incluso nel Meridiano. La poesia merita credito in quanto contribuisce a persuadere, proprio in quanto espressione di speranza e di resistenza, la parte più vulnerabile della nostra coscienza, spesso avvilita da errori e da orrori, che il senso della nostra esistenza, del nostro breve passaggio su questo pianeta, si manifesta nella ricerca, nella comprensione e nella testimonianza di tutto ciò che ci rende umani, nella buona e nella cattiva sorte. La poesia ha un ruolo fondamentale, addirittura privilegiato forse, in questa ricerca e in questa comprensione. Lo dico sempre ai miei studenti quando leggiamo, studiamo e traduciamo poesia: non solo quella dei grandi poeti come Heaney, ma anche la nostra, i loro versi e i miei.
Stando esattamente agli antipodi rispetto a noi, che cosa pensi della vitalità della poesia italiana nel mondo?
Sono lontano da tutto e da tutti, ma grazie a social media, e alla possibilità, più o meno regolare, di ritornare per ricerca o per vacanza in Italia, riesco a stare abbastanza al passo con gli sviluppi della nostra poesia in Italia come in Inghilterra, Stati Uniti e Australia, dove ci sono altre voci esuli come la mia, per così dire. La poesia in Italia è in buone mani, da sempre: in questo particolare momento penso che siano le poetesse, sia quelle più affermate che quelle che hanno da poco esordito, a dare l’esempio e a proteggere, rinnovandola, una delle tradizioni liriche più importanti e diversificate della letteratura mondiale.
La poesia resiste all’epoca dei social network? Tu stai facendo un esperimento a mio giudizio molto importante su Facebook: quello di accostare immagini tue a testi di altri, creando un cortocircuito fra fotografia e testo poetico.
La poesia ha resistito e continuerà a resistere a tutto e a tutti, ne sono convinto. Come ho detto prima, la frequentazione regolare dei social media, soprattutto Facebook, mi ha permesso di conoscere, e poi a volte anche di incontrare, scrittrici e scrittori di grande valore che altrimenti avrei fatto fatica a seguire, e che ora invece sono una parte importante della mia giornata, indipendentemente dal tempo effettivo dedicato a questo libro virtuale. Entrare nel proprio account Facebook può significare entrare non solo in uno spazio di scrittura e di lettura sempre attivo, sempre in evoluzione, ma addirittura nella vita di chi scrive, tra un pensiero e l’altro, tra una parola e un’altra. Quello che sto facendo io da un po’ è affidare la lettura di una mia fotografia ai versi di poesie altrui. Parto sempre dall’immagine, che riflette un momento della mia giornata, di solito la mattina presto o la sera tardi, e poi scelgo dei versi che entrano in dialogo con essa. Questa conversazione aumenta il piacere che provo leggendo poesia, mi aiuta a trovare o a creare interpretazioni nuove ai testi che leggo. In certi casi ho la sensazione che certi versi siano stati scritti proprio per quella foto. Questa illusione è di per sé una gioia e una speranza, per piccole e periferiche che siano. Eppure qualcosa smuovono, a giudicare dal numero di persone che sembrano amarle: vuol dire che hanno anche loro trovato qualcosa in quell’accostamento, in quell’invito a guardare e a leggere.
Torniamo dall’oggi dei social al tempo. Quanto profonda era la relazione di Heaney col latino e il mondo classico? “Noli timere” sono le sue due ultime parole. Oltre a rappresentare uno struggente atto d’amore a sua moglie e alla vita, che cosa ci dice questo di lui?
Il latino, da tanti punti di vista, è sempre stato un punto di riferimento intellettuale (e, all’inizio e forse anche alla fine, spirituale): dalle prime lezioni mattutine con Master Murphy alla scuola elementare di Anahorish, alle lezioni con Father McGlinchey negli anni delle superiori a St Columb’s College, dove inizia un rapporto particolare con l’Eneide di Virgilio. Non mi ha quindi sorpreso che tra le sue carte sia stata ritrovata e pubblicata la traduzione del liber sextus, libro preferito da Father McGlinchey, che per ragioni curriculari dovette però tralasciarlo. Heaney aveva iniziato a tradurre questa parte dell’Eneide, in cui Enea scende negli inferi a incontrare il padre Anchise, dopo la morte del padre Patrick: alcuni versi, con il titolo Il ramo d’oro, aprono la raccolta Vedere le cose (1991). Inoltre, tra i versi di Heaney fanno capolino Orazio e forse anche Lucrezio: c’è, infatti, chi ha accostato proprio l’estremo “noli timere” inviato per sms alla moglie negli istanti prima di morire ad alcuni versi (110-112) del primo libro del De rerum natura (“nunc ratio nulla est restandi, nulla facultas,/ aeternas quoniam poenas in morte timendum./ ignoratur enim quae sit natura animai”).
Il latino, e Heaney lo ha ricordato in diverse circostanze, è rimasto il legame più fertile e duraturo con la matrice e la ritualità cattolica della propria identità culturale, senza dubbio come modello etico-estetico: penso, da una parte, alla simbologia e ai misteri della messa (un’esperienza quotidiana negli anni trascorsi al St Columb’s College), e dall’altra penso alle modalità di integritas, consonantia, claritas proposte da San Tommaso d’Acquino e assorbite anche grazie, per così dire, alla mediazione letteraria di James Joyce.
Bisogna poi, seppure per sommi capi, ricordare anche il ruolo della mitologia e della letteratura classica greca: un incontro altrettanto formativo e fertile che ha trovato nelle tre traduzioni sofoclee (due complete, una soltanto iniziata ma ugualmente importante) l’espressione più forte. E le parole con cui si chiude What Passed at Colonus — un passo da Edipo a Colono che Heaney tradusse come omaggio in memoriam del grande poeta polacco suo amico, Milosz — sono come mi immagino che Heaney se ne sia andato la mattina del 30 agosto 2013: “down to where/ Light has gone out but the door stands open”.