È in libreria per i tipi di Mondadori il volume di Elio Guerriero, Servitore di Dio e dell’umanità. La biografia di Benedetto XVI. All’autore, che è tra i maggiori esperti italiani di teologia e cultura religiosa del Novecento, abbiamo chiesto di introdurci alla lettura.

Molti continuano a vedere Joseph Ratzinger soprattutto come l’uomo della tradizione che rifiuta di lasciarsi mettere in discussione dai cambiamenti del mondo, attaccata alla difesa rigorosa delle certezze del passato. Come si fa a smontare questo pregiudizio ostile?



Ratzinger non è mai stato un difensore pedante della tradizione. Lo si vede chiaramente già dalle scelte del periodo dedicato agli studi teologici. Con sicuro intuito, ha optato fin dall’inizio per gli orientamenti nuovi dello spirito. Ha preso atto della crisi della Scolastica neotomista, emersa negli anni successivi all’ultima guerra, ha aderito al movimento del rinnovamento liturgico, si è inserito nella linea della riscoperta del pensiero dei Padri, tracciata in particolare da de Lubac. Decisivo è stato il passaggio del concilio Vaticano II, a cui Ratzinger ha contribuito finendo per essere etichettato come un “progressista”. In realtà voleva solo cercare di rispondere, come lui stesso dice, alla “domanda del tempo”. Si trattava di un insieme di urgenze drammatiche, che erano sulla bocca di tutti dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale: come era potuta accadere la Shoah, da dove avevano preso origine tanto odio e tanta violenza… Bisognava cercare di rispondere senza inventare niente di rivoluzionario, ma attingendo al tesoro di sapienza di sant’Agostino, di san Bonaventura. Ratzinger, per questo, è stato sicuramente un uomo della tradizione. Ma della tradizione viva, continuamente riscoperta, rimessa in contatto con la vita concreta del mondo.



L’attaccamento alle radici allora non ha precluso l’apertura al rinnovamento profondo. Dove viene a galla questa dimensione “riformatrice”, nel senso pieno del termine?

Lo si vede benissimo proprio nella vicenda del Vaticano II, da cui secondo me è indispensabile partire. Vi è a questo riguardo un episodio rivelatore, riportato anche nel mio libro. Nel 1961 il cardinale Frings di Colonia, che faceva parte della Commissione preparatoria in vista della convocazione del concilio, fu invitato a tenere una conferenza dal cardinal Siri di Genova, molto influente e noto per i suoi orientamenti conservatori. Frings chiese a Ratzinger, allora professore a Bonn, di scriverne il testo, che fu poi inviato perché venisse letto, non potendo Frings farlo di persona a causa di problemi di salute. Passato del tempo, in occasione di un viaggio a Roma per le ultime sedute della Commissione, una sera Frings viene avvisato che il papa, Giovanni XXIII, desidera parlargli. È una sorpresa inaspettata, e il presule tedesco comincia a temere di dover incorrere in qualche rimprovero per le sue aperture forse eccessive alle novità che andavano maturando. 



Il giorno dopo, invece, quando il papa lo vede gli va incontro esclamando a gran voce: “Eminenza, ma che bella la sua conferenza! Lei ha veramente capito lo spirito del concilio”. E Frings, da parte sua: “Veramente l’ha scritta un giovane professore che mi assiste”. Di nuovo il papa, imperterrito: “Ha fatto benissimo! Bisogna saper sceglierseli bene i collaboratori!”. Insomma: la diceria di Ratzinger conservatore è veramente campata per aria. Si deve “conservare”, sì, la tradizione. Ma amandola come tradizione vivente: una fonte da cui attingere sempre acqua viva, dentro il presente.

 

Possiamo approfondire in che senso Ratzinger è stato un uomo del Vaticano II?

Lo è stato in prima persona durante il suo svolgimento, e si è sempre concepito tale. Lo ha ripetuto infinite volte: “Sono gli altri che sono cambiati, non io!”. Solo che il concilio Ratzinger lo identifica rigorosamente con i documenti che ha prodotto. Il suo “spirito” non è quello affiorato nelle assemblee di contorno, disputato nei convegni dei teologi e degli specialisti che ne hanno fatto oggetto di diatriba. Non lo si può inventare ogni volta di nuovo. Aderendo al dettato oggettivo delle volontà espresse dal concilio, forse si può dire che Ratzinger ha cercato soprattutto di sviluppare quanto indicato nel capitolo quinto della costituzione sulla Chiesa, la Lumen gentium, che ha reintrodotto il tema della vocazione universale alla santità. Questo è il fondamento di una intensa partecipazione di tutti i fedeli cristiani, con uguale dignità, alla vita della Chiesa. Si tratta di una verità che è sempre stato molto a cuore a Ratzinger: non a caso, buona parte delle sue catechesi del mercoledì, nel corso del pontificato, sono state dedicate alle figure dei santi. I santi, così mi ha personalmente confidato, sono per lui “la migliore spiegazione del Vangelo nel tempo”: ci testimoniano con la loro vita cosa Gesù ci chiede e ci mostrano in modo concreto come possiamo attuarlo. Per rafforzare il valore della santità come linfa profonda della vita della Chiesa e fonte da cui scaturisce ogni autentico rinnovamento, è stata molto significativa la scelta di riportare all’interno delle Chiese locali la proclamazione dei nuovi beati: i santi sono un frutto della vita delle diverse realtà che compongono la Chiesa, e soprattutto su di loro deve ricadere la forza del loro fascino che attira.

 

Altre sorgenti della vita cristiana che Ratzinger ha cercato di far riscoprire e amare di più sono la liturgia, la Parola di Dio…

Ratzinger ci aiuta a recuperare il modo giusto di porsi di fronte a questi fondamenti della vita della Chiesa. Lui non sottovaluta il lavoro continuo di studio e di commento degli specialisti di scienze sacre e degli esegeti. Si vede molto bene nei volumi su Gesù quanto ne sia debitore. Ma quello che gli preme più di tutto è che ognuno sia messo nelle condizioni di riconoscere che al cuore della preghiera liturgica e del rapporto con la parola divina deve esserci lo stare di fronte a una presenza viva. 

C’è una Persona davanti a noi che ci ascolta, che interloquisce con noi, ci comprende, e può rispondere alle nostre suppliche. Altrimenti il culto e la Parola di Dio diventano un insieme di riti o un involucro di testi staccati dal rapporto con il Mistero che sta alle loro spalle.

 

Quello che Ratzinger ha sottolineato come uomo di studio e pastore della Chiesa deve prima di tutto avere inciso sulla sua esperienza. Colpisce molto questa coerenza che si intuisce tra dottrina e sensibilità umana. Quali sono i tratti tipici del suo “stile” personale?

Ho avuto il dono di entrare in contatto con lui fin dal 1985. Ben prima di consultarlo per scrivere la biografia da lui poi approvata, l’ho incontrato più volte a tu per tu dovendo occuparmi della cura dell’edizione in lingua italiana di molte sue opere. L’ho sempre trovato disponibilissimo, pronto ad adattarsi con molta semplicità a ogni richiesta di chiarimenti, preoccupato di mettere subito a suo agio l’interlocutore. Può sembrare un fatto paradossale, se lo paragoniamo alla gravità dei compiti di cui era investito, all’autorevolezza che ha esercitato, ai ruoli anche di potere di cui si è messo al servizio. Arrivato al vertice più elevato della guida della Chiesa, è sorprendente che non abbia mai smesso le sue doti di coscienzioso uomo di studio: per me è rimasto sempre un uomo di spirito.

 

Altri aspetti importanti di questa apertura alle dimensioni della ragione e della cultura?

Direi soprattutto il tema del destino dell’Europa, delle sue radici cristiane e di come rilanciarle per rispondere alla crisi nella quale ci siamo inoltrati, che Ratzinger ha saputo decifrare con l’intelligenza acuta che sono costretti ad ammettere anche quanti non gli sono particolarmente amici. La sua proposta è quella di un nuovo umanesimo per il Duemila: non un ritorno all’indietro nel tempo, che sarebbe stupidamente suicida, ma un umanesimo fondato sul dialogo tra le religioni, sull’incontro tra credenti e mondo laico, sullo sforzo di superare rancori e incomprensioni per rispondere al desiderio nascosto nel cuore di ogni uomo.

 

Parlare di apertura e incontro suggerisce l’idea di una vicinanza con lo stile di papa Francesco.

Esattamente. Papa Benedetto ha rimarcato in modo esplicito la continuità del passaggio che conduce dalla “via dell’amore” sviluppata con le sue prime, memorabili encicliche (Deus caritas est) fino a papa Francesco. Per entrambi, tutto muove dall’amore di Dio. Dio è misericordia, e il suo abbraccio si estende a tutti gli uomini. Partendo da qui, ogni fede religiosa, senza rinunciare alla fedeltà con la sua origine, può purificare sé stessa e aprirsi all’incontro con il diverso.

 

Tra Benedetto e Francesco in mezzo c’è lo snodo della rinuncia del primo al papato, che ha creato tanto scompiglio.

Dobbiamo essere sereni su questo punto: papa Benedetto mi ha apertamente confidato che già un anno prima della rinuncia, all’inizio del 2012, dopo il viaggio in Messico e a Cuba, aveva cominciato ad accusare problemi di salute. I medici lo consigliarono subito di escludere per il futuro altri voli intercontinentali. Nei mesi successivi, vedendo che l’affaticamento fisico non accennava a diminuire, prese corpo l’ipotesi del ritiro. Ma è stato un gesto di fede, vissuto nell’abbandono alla paternità di Cristo che è la guida vera della Chiesa. Perché la Chiesa non è né di Apollo né di Cefa. È la barca di Gesù, e Lui di sicuro non avrebbe mancato di trovare un altro papa degno di traghettarla. È stata una scelta dolorosa, ma che si imponeva come un preciso dovere.

 

E ora?

Nel ritiro di Mater Ecclesiae, Benedetto custodisce un vivo sentimento di comunione e di vicinanza con il successore che ne ha preso il posto, ricambiato con uguale spirito di fraternità. Non sono stati anni vuoti. Benedetto si dedica alla preghiera, allo studio, alla corrispondenza. Lo vedo come un uomo diventato veramente di Dio. È salito più in alto, non tanto fisicamente come luogo di residenza, ma nello spirito, come un vero monaco quasi di stile orientale che, aprendosi alla dimensione bella e santa della contemplazione, arriva a vedere dall’alto le cose con maggiore chiarezza. Ho avuto effettivamente l’impressione di trovarmi di fronte a un uomo diventato ancora più buono, con uno sguardo ancora più misericordioso, rivolto a tutte le miserie del mondo.