Uomini senza patria, i poeti. In costante esilio da sé, come tutti sulla terra, ma più di tutti chiamati a sentire l’acuta, l’insanabile distanza dalla compiutezza, da quella perfezione di cui tutti, lo cantava Caproni, serbiamo il ricordo senza ricordare di dove venga. Non è questione di maledettismi o di borghesia: è un dannato, benedetto dono e alla fine non si può sperare, forse, altro che di non sprecarlo.
Uno che lo sapeva bene, e che pur sapendolo fu costretto a impararlo giorno dopo giorno, era Emanuel Carnevali (1897-1942), l’italiano che fu americano e che oggi conosciamo soprattutto grazie allo zibaldone di poesie, critiche e prose pubblicato da Adelphi quasi quarant’anni fa (Il primo dio, Adelphi 1978, 432 pp.). Poeta maledetto anche nella più stretta delle accezioni, uno dei pochi avventurieri della poesia italiana, così maledetto che i pochi a ricordarlo oggi spesso si incagliano più nella sua vita e nel suo impeto furioso che nell’arte singolare e sconcertante che da quella vita ha preso corpo.
Già, perché Emanuel, o Manolo, o Em — come lo ribattezzarono gli amici americani — fu sregolato vero, sebbene a tempo determinato: nato a Firenze, figlio di genitori separati (rara avis a quei tempi), vive con la madre a Biella fino alla morte di lei, quando il padre lo piazza in collegio per qualche anno, per poi richiamarlo a sé e alla sua nuova famiglia. In collegio a Venezia e poi — dopo il ritorno al padre — a Bologna, il futuro Em accoglie le prime lezioni di arte e di vita: del carducciano Adolfo Albertazzi, le prime; della bella Isolde — che entra nella sua vita come “un poema di grazia e bellezza” (Il primo dio, p. 50) — e del compagno Giovanni — per cui provava “un amore vero, fervido, appassionato, stupendo” (p. 53), le altre.
Finché nel 1914 decide che basta collegi ed espulsioni, sale una nave e dopo un mese sbarca oltreoceano senza conoscere una parola d’inglese. Lì, lavorando come lavapiatti e cameriere, impara a poco a poco quell’idioma simile a una “danza vertiginosa e jazz impazzito” e in quell’idioma riversa l’istinto creativo che le lezioni di Albertazzi avevano temperato e rassodato. Comincia a scrivere a tutte le riviste di poesia finendo con il vincere, nel 1918, un concorso per nuove voci della rivista Poetry, quella su cui, tanto per intenderci, scrivono assiduamente gente come Eliot, Pound, Williams e compagnia cantante. E di questa compagnia cantante, nell’alternanza dei suoi umori, Carnevali diventa in qualche maniera sodale, prendendo e offrendo, e divenendo in una fortuita convergenza di istanze diverse una via nuova a quell’imagismo che appena sorto già andava facendosi maniera. Diventa, insomma, parte della migliore poesia avanguardista d’America, lui che in italiano, come ammette, non sapeva scrivere.
Di Poetry diventa per qualche mese persino condirettore, mentre per qualche tempo una donna folle o santa accetta di diventare la signora Carnevali. Poi i demoni, i mostri e quel destino spesso incomprensibile ai nostri poveri mezzi si accaniscono di nuovo su di lui: ammalato di encefalite letargica, nel 1922 è costretto a tornare in Italia, dove spende gli ultimi vent’anni tra sanatori e soggiorni casalinghi. A confortarlo, le cure della sorella e le lettere e le rare visite di quegli amici americani — di Pound, per esempio — che mai lo abbandonarono del tutto.
Ancora beffardo, a una vita tutta “di traverso” il destino invia come esecutore non la malattia, ma un boccone di pane che, messosi anch’esso di traverso, lo soffoca.
Ce n’è abbastanza, è chiaro, per fermarsi al fascino di una vita avventurosa e strana e quasi sorvolare sulla sua arte. Ed è forse destino obbligato, questo monodimensionalismo, di quegli autori che si salvano dall’oblio grazie al loro divenire “di culto”. Per questo è opera di grande merito quella dell’archivio comunale di Bazzano, luogo in cui Carnevali finì i suoi giorni e dove le sue carte sono conservate, che propone sabato 15 ottobre una giornata di studi per sottrarre questo diamante grezzo alla sua visuale solita e mostrarne, nuove e lucide, tutte le sfaccettature.
A questo convegno, al dialogo con la curatrice Aurelia Casagrande, e soprattutto alla lettura de Il primo dio il compito di scoprire tutta la profondità di Carnevali. Di scoprire, verso dopo verso, le consonanze di quest’uomo sempre di corsa con la vita e i desideri di noi tutti: “Volevo maledire i miei occhi encefalitici/ Ma non maledissi nulla, perché la mattina/ era bella, e c’era pace nel mio cuore” (Castelli sulla terra, in Il primo dio, p. 313).
Qui il programma della giornata di studi.