Un boato ha accolto la proclamazione di Bob Dylan premio Nobel per la letteratura 2016: così recitano i lanci di agenzia e le pagine web dei maggiori quotidiani. Un boato. Ti immagini se avessero detto Haruki Murakami o Ngugi wa Thiong’o? Silenzi e sguardi interrogativi, forse. Boati no. Ma per Dylan un boato. E in giro per le strade stracci sparsi ovunque, poeti e narratori come l’Orlando ariostesco in giro nudi nelle strade a strapparsi le vesti perché così non si fa, perché la canzonetta non è mica la poesia. 



E sui giornali? Sono già partite le fazioni, le squadre del sì e del no — gioco a cui recentemente siamo spesso chiamati —, le squadre del tiro alla fune del commento: da una parte la squadra del politicamente corretto che riprende ed abbraccia la motivazione con cui è stato assegnato il premio “per avere creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”, la squadra che saluta il gesto del comitato come una vera e propria provocazione, una sfida alla cultura paludata e un’apertura alla cultura vera, a quella che dà alla gente le parole da usare nei suoi discorsi, nelle sue dichiarazioni d’amore, nelle sue speranze e nella sua rabbia. Dall’altra parte la squadra dei puristi, di quelli che imbracciano le ragioni degli scrittori, dei poeti, della letteratura che deve essere difesa dalla spettacolarizzazione a cui oggi viene ridotta, come questo Nobel conferma. 



A questi i primi rispondono — e non hanno torto — che Dylan non ha scritto solo canzonette, che ha scritto libri, racconti, poesie, che ha dato voce alla protesta, al desiderio di un popolo intero di cambiare rotta. Quelli degli stracci, invece, ribadiscono — e non hanno torto — che in fondo ciò che si conosce di lui sono solo le canzonette. Che non è un argomento validissimo, per la verità: se il premio l’avesse preso Thiong’o, qualcuno avrebbe potuto dire di conoscerne l’opera omnia? E poi il problema non è canzonette sì o canzonette no, aggiungono i difensori del premio al menestrello del Minnesota. Il problema è quali canzonette, che cosa raccontano, come ci descrivono, come ci hanno fatto crescere. E nessuno meglio di Dylan, forse, ha raccontato un pezzo di storia, non solo americana. 



A me piacerebbe che anche qui, come in altre battaglie tra il sì e il no, ci fosse il tempo di distinguere, di  approfondire, di decidere. Ma tempo non ce n’è molto e forse si può dire, con buona pace dei politicamente corretti, che la canzone è la canzone e che la poesia è la poesia. Che non vuole dire ancora bocciare Dylan, ma vuole dire che la motivazione, se non altro, suona un po’ falsata. Dylan ha creato nuove espressioni poetiche?  

No. Le sue canzoni sono splendide canzoni, con regole e strutture della canzone, con una espressività che poco ha a che vedere con la ricerca  della poesia. La poesia che scriviamo oggi non è certo quella che si scriveva nel settecento, e nessuno di noi può dire con assoluta certezza, con assertività definitiva, cos’è la poesia oggi e cosa potrà diventare domani. Ma possiamo dire con certezza che la canzone, anche quella d’autore, anche quella con testi che sono spesso migliori dei versi dei poeti, rimane un’espressione diversa da quella poetica.

Fatta questa debita constatazione, è pur vero che il Nobel è assegnato per la letteratura. E la poesia non è la letteratura tout court. Ci sta dentro il teatro, la narrativa, perché no la saggistica e altro ancora. Ci sta dentro anche Dylan? Mi piace rispondere con le parole di un anziano Tzvetan Todorov che scriveva così nella premessa al suo straordinario libro La letteratura in pericolo

“Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere: perché mi aiuta a vivere. Non le chiedo più, come negli anni dell’adolescenza, di risparmiarmi le ferite che potevo subire durante gli incontri con persone reali; piuttosto che rimuovere le esperienze vissute, mi fa scoprire mondi che si pongono in continuità con esse e mi permette di comprenderle meglio. Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e di organizzarlo. Siamo fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i nostri genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinito questa possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. Al di là dall’essere un semplice piacere, una distrazione riservata alle persone colte, la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”

Allora potremmo chiederci anche noi con Todorov: Dylan ci aiuta a vivere meglio? A rispondere meglio alla nostra vocazione di essere umani? Non possiamo fare a meno delle sue parole, come non possiamo fare a meno delle parole dei poeti e degli scrittori che ci consentono di esprimere i sentimenti che viviamo, di mettere ordine nel fiume degli avvenimenti che costituiscono la nostra vita? La sua opera, canzonetta o no, è una rivelazione del mondo che può anche trasformarci nel profondo? Forse, anche la risposta a questa domanda, sarà dispersa nel vento. Come recitava la più famosa canzone  di Bob Dylan che così, in un testo semplice e immediato, raccontava del desiderio dell’uomo di trovare una risposta alla sua domanda di significato. Non poesia, canzonette, ma mica roba da niente: ci siamo dentro tutti, ci hanno provato tutti, da Omero a Leopardi, da Montale a Bob Dylan. Forse è anche per questo che Vasco Rossi, Enrico Ruggeri, Luciano Ligabue, Francesco Guccini, Niccolò Fabi, Franco Battiato e tanti altri, adesso, scalpitano. Potrebbe capitare anche a loro di vincere il Nobel. E non ci sarebbe da stracciarsi le vesti. Forse.