Sette ore al giorno per due anni: così il regista Orazio Costa guidava i suoi giovani allievi della Silvio D’Amico alla scoperta del principe di Danimarca. Da allora l’Amleto, a detta dello stesso Fabrizio Gifuni, rappresenta un capisaldo della sua formazione artistica: e non si pensi alla formazione come a un apriori talmente incrostato da essere buono al massimo per una qualche citazione; piuttosto, qui, si intende una di quelle fonti di alimentazione continua che ognuno nella vita dovrebbe aver ben cura di intercettare e custodire.



Nel 2010, per una geniale intuizione figlia anche delle memorie accademiche, il delirio di Amleto era andato a confondersi con quello dell’ingegner Gadda, dando vita a uno spettacolo (regia di Giuseppe Bertolucci) di considerevole successo di pubblico e critica: L’ingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro è valso all’attore il Premio Ubu 2010, il Premio Napoli 2014 e svariati altri riconoscimenti anche da parte del mondo accademico.



Oggi Gifuni torna al maggior mito moderno passando per la musica: lo spettacolo, con la consulenza musicale del direttore d’orchestra Rino Marrone, distende pensieri e parole di Amleto su due composizioni a soggetto di Dmitri Shostakovich: le musiche di scena di un allestimento teatrale di Amleto del 1932 (op.32a) e le musiche del film Hamlet, regia di Grigori Kozintev, realizzato nel 1964 per i 500 anni dalla nascita di Shakespeare. 

La scelta di essere affiancato da un’orchestra può aver inizialmente contrariato coloro che sono ben paghi della voce incredibilmente polifonica di Gifuni; tuttavia, dopo un iniziale e necessario momento di armonizzazione tra forma proposta e attesa segreta del pubblico, la suggestiva esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Abruzzese ha consentito quella dilatazione necessaria a sedimentare — e ad arricchire — nella coscienza vellicata dello spettatore la presenza delle parole-verità di Amleto. In quei momenti abbacinava la chiarezza di una scenografia tutta contenuta nella mimica dell’attore, straordinariamente combaciante con l’azione. Come nell’eloquio di Amleto — così diverso dalle words words words del potere di turno, tutte inganno e vacuità — non v’è “concetto astratto” che non s’inveri “in oggetti concreti” (di Agostino Lombardo l’intuizione critica), allo stesso modo non v’è sussurro, grido, sentimento accennato, a cui il corpo di Gifuni non risulti perfettamente trasparente, incarnandoli fin nelle vene, nei tic, nell’improvviso disciogliersi dei muscoli (memorabile la resa di “Ah, se questa troppo troppo solida carne/ si sciogliesse nel nulla, in un vapore,/ sgelandosi, fondendosi in rugiada!”).



Tante le suggestioni, tante le strazianti gioie, che occorre un sacrificio per volersi fermare solo su un punto della lettura ermeneutica di Gifuni; tuttavia, un punto talmente decisivo da infiammare di sé — e in sé — il resto: la dimensione civile. 

Il senso di denuncia, di critica sociale, di giudizio sul mondo che si fa missione, permea la drammaturgia, che, elaborata dallo stesso attore, va a insistere, con la selezione e i tagli (non v’è traccia di Ofelia, per esempio), su alcuni nodi specifici: il sentimento irrimediabile del tradimento, il Remember me del Re (Amleto è totalmente costituito dal ricordo del rapporto con il padre, dalla memoria continua del rapporto con il padre), il gioco-teatro (play) che svela il vero, la virtù sempre inattuale in qualsiasi mondo dominato dal potere (il regno di Danimarca ci preme tutti, da ogni parte). Alcuni di questi nodi sono sottolineati da citazioni reiterate che fanno da vero e proprio leitmotiv dell’intero spettacolo: There are more things in heaven and earth, Horatio,/ Than are dreamt of in your philosophy (“Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio/ che nei sogni del tuo filosofare”), Forgive me this my virtue;/ For in the fatness of these pursy times/Virtue itself of vice must pardon beg,/Yea, curb and woo for leave to do him good (“Scusa la mia virtù; di questi tempi,/ la virtù deve chiedere perdono/ anche se solo mette il naso fuori”), The time is out of joint: O cursed spite,/ That ever I was born to set it right! (“Il secolo è fuori dai cardini. Maledetto destino,/ che io sia nato per rimetterlo in sesto…”). 

Quest’ultima battuta ben rende il colore con cui Gifuni invera una pur consolidata tradizione di teatro (e cinema) engagé; soprattutto, se la si pensa in dialogo con una sentenza di Genet così cara all’attore da parere il suo continuo abbrivio: “Non c’è per la bellezza altra origine che la ferita”. All’origine di Amleto, di Amleto folle, di Amleto puro, di Amleto creatore e distruttore, di Amleto archetipo, di Amleto uomo (semplicemente), vi è proprio un’insanabile ferita: il venir meno, violento, del proprio padre. Nel distracted globe, nel mondo sconvolto, fuori dai cardini, il compito, il “destino maledetto”, di Amleto è Remember thee!, ricordare il padre, non cicatrizzare quella ferita. Sarà questo a rimettere in sesto il secolo impazzito. Proprio qui Amleto diventa Gifuni (o viceversa): la dimensione civile, la dimensione “per il regno”, “per la società”, “per il mondo”, del capolavoro shakespeariano si colora di una sensibilità tutta contemporanea: ad essere per il mondo è anzi tutto la propria ferita. Amleto-Gifuni, abitando il proprio “scardinamento”, così autentico, così originario, così coincidente con la vita, riposiziona su cardini umani — umani! — il mondo, e, così, lo rimette in sesto, adempiendo il suo compito. 

Lo spettacolo è prodotto dalla bella manifestazione “Le vie del festival”, giunta alla sua XXIII edizione.