Durante lo scorso mese di luglio, dopo il fallito colpo di stato, in Turchia si è pericolosamente affacciata l’ipotesi di ripristinare la pena di morte (abolita nel 2004, anche se dal 1984 non veniva più comminata). Parlare di pena di morte, almeno in Europa, significa parlare di qualcosa che appartiene ad un passato magari non troppo remoto, ma in ogni caso definitivamente superato non solo dalle leggi e dalle Costituzioni degli Stati, ma anche dalle Convenzioni comunitarie (come quella firmata a Vilnius nel 2002 in cui la pena di morte è vietata “in ogni circostanza, ivi compreso per crimini commessi in tempo di guerra o in pericolo imminente di guerra”). 



Ma nel resto del mondo la pena capitale è ancora presente in molti Stati e dunque è impossibile considerarla come una faccenda che riguarda la storia passata dell’umanità, tanto più se si tiene presente che le domande e le inquietudini che suscita travalicano il piano strettamente giuridico o politico della questione, e investono direttamente il rapporto dell’uomo con la vita (la propria e quella degli altri), con la finitezza, con il senso. 



Negli anni 1999-2000 e 2000-2001, nel quadro generale di una ricerca dal titolo “Questioni di responsabilità”, Jacques Derrida ha svolto un seminario dedicato alla pena di morte di cui è appena uscita l’edizione italiana del secondo anno presso l’editore Jaca Book (il primo anno delle sedute del seminario è uscito nel 2014 sempre a cura di Gianfranco Dalmasso e Silvano Facioni). Si tratta complessivamente di ventuno lezioni in cui è possibile ritrovare (o scoprire) lo sguardo acuto e perturbante del filosofo francese, che non tralascia nessuna delle implicazioni che la pena di morte trascina con sé: implicazioni non sempre evidenti, non sempre immediatamente avvertibili che coinvolgono i problematici concetti di sovranità, di crudeltà, di eccezione. 



Il secondo volume, in cui vengono approfondite alcune domande già scaturite durante il primo anno di seminario, prende le mosse proprio da quanto era stato avvistato: la pena di morte, scrive Derrida, conosce un fascino sinistro e perverso perché risponde alla “follia di mettere fine alla finitudine mettendo fine, in maniera calcolabile, alla vita”. E dunque l’insulto e l’ingiuria, la profonda ingiustizia della pena di morte (soprattutto quando si presenta come “giusta”,  giuridicamente “fondata”, o anche politicamente “difesa”) consistono non tanto nella morte stessa, quanto nella fine, nella chiusura dell’incalcolabile avvenire, con quanto arriva, con l’altro che dell’avvenire e dell’indeterminabile è volto e ingiunzione. 

Ecco allora che nel secondo anno di seminario che si snoda intorno alla questione della vita e del vivente, nel corso delle undici lezioni vengono convocati alcuni autori: Kant, Heidegger, ancora Beccaria e soprattutto Theodor Reik, uno degli allievi di Freud che proprio intorno al problema della “colpa” e soprattutto del “castigo” ha scritto pagine che Derrida sottopone ad una lettura serrata.  

Autori che, in vario modo, hanno costeggiato la questione della pena di morte che, come il filosofo francese non smette di sottolineare, è una questione singolarmente assente nella riflessione filosofica, e che viene confinata nell’ambito giuridico come se questo rappresentasse una sorta di riserva, una specie di protezione capace di limitare o di controllare l’immensa portata di quanto è in gioco. È impossibile dare conto della ricchezza e delle variazioni, delle modulazioni assunte dalla pena di morte quando viene investita dal pensare filosofico (che ha le sue leggi, le sue griglie, in una parola la sua impostazione), ma nonostante questa difficoltà — che, tra l’altro, caratterizza l’opera di Derrida sempre riottosa di fronte alle semplificazioni —, ci sono alcuni nodi del discorso che tornano con implacabile forza, di lezione in lezione.

Tra questi, uno dei più importanti riguarda la decisione, la decisione “sovrana” di chi infligge all’altro la pena di morte: tale decisione, infatti, è compiuta in nome di un calcolo (termine in cui risuona lo stesso “logos”, la ragione che, appunto, “rende conto” di qualcosa), un calcolo di giustizia (come avviene con la legge del taglione), un calcolo sociale, un calcolo politico. Ebbene, dice Derrida, la morte non si lascia sottomettere al calcolo, anzi essa è, in senso stretto, l’incalcolabile, e dunque credere di poterla gestire attraverso la pena capitale significa credere di poter “calcolare” quanto al calcolo si sottrae.

In questo senso, allora, nella società il dominio di una ragione calcolante non potrà che estendersi ad ogni regione dell’umano, fino a quell’incalcolabile che intreccia indissolubilmente la vita e la morte. Sarà anche per questo che Theodor Reik, uno dei più importanti allievi di Freud, ha dedicato al problema del castigo, della colpa, del bisogno di confessare una colpa, uno studio importante al quale Derrida dedica diverse lezioni, in cui viene mostrato in che modo il diritto penale sia stato influenzato dalla psicoanalisi e dalle considerazioni legate alle pulsioni psichiche inconsce. Secondo Reik, infatti, la legge del taglione rappresenterebbe una sorta di pulsione inconscia che la società si incarica di punire (perfino con la pena di morte), anche se è auspicabile che la punizione sia solo uno stadio storico dell’uomo che verrà superato da misure di protezione (dalla violenza) più efficaci.

Il riconoscimento di un inconscio all’opera nell’agire dell’uomo non rappresenta certo un indebolimento o una giustificazione dell’agire violento e mortifero ma, nella lettura di Derrida, dichiara ancora una volta un’alterità dentro la soggettività, un’impossibilità, per l’io, l’ego, il soggetto, di potersi definire autoreferenzialmente.  

Le necessarie distinzioni che chiedono alla filosofia, al diritto, alla politica di non smettere di cercare o di ampliare il loro sguardo, non possono da ultimo non riconoscere, nel legame con l’altro, l’abissale, insondabile “fondamento” di quanto viene chiamato vita e morte, fino ad affermare: “Io muoio e io non muoio che per l’altro e, la si metta come si vuole, ciò non significa che questo, la mia morte, non mi accada. Credo piuttosto che sia nell’oscura chiarezza, nella prima luce di questo ‘per’, che è esso stesso rischiarato, insostituibilmente, dalla luce di questa morte, come se il ‘per’ trovasse il suo luogo, e si vedesse dare alla luce solo nel morire per l’altro, è sulla piega della nascita di questo ‘per’ che la distinzione tra uccidere e morire, tra il crimine di vendetta e la pena di morte, tra tutti i sensi della condanna (condannare a morte, condannare a morire di morte cosiddetta naturale o condannare a morire di malattia), tra l’omicidio, lo zoocidio o il biocidio in generale e il suicidio, ecc., diviene impossibile o rimane impossibile, per necessaria che, d’altra parte, essa sia”.

 

Jacques Derrida, “La pena di morte. Volume II”, a c. di G. Dalmasso e Silvano Facioni, Jaca Book, Milano 2016, pp. 326.