LIPSIA — Mentre si potrebbe con ragione ammirare con quale semplicità e precisione papa Francesco, nell’intervista al gesuita svedese Ulf Jonsson uscita su La Civiltà Cattolica, si prepara alla visita a Lund per l’inizio del 500esimo anniversario della Riforma luterana, presentando il suo pensiero ecumenico ed interreligioso, la Frankfurter Allgemeine Zeitung di questo fine settimana si chiede se il papa sia il nuovo Lutero del 2017. Secondo il vaticanista Christian Geyer, Francesco è un confusionario che intacca l’autorità del ministero papale. Un papa che invece di voler riportare i luterani a Roma, porta i cattolici a Wittenberg, la città in cui Lutero avrebbe affisso le sue 95 tesi contro la vendita delle indulgenze. Il giornalista della Faz cita anche un teologo di Friburgo, Helmut Hoping: “Attualmente vedo il pericolo che il ministero papale, in forza di oscurità dottrinali e frasi spontanee irritanti, metta in gioco la propria autorità”. 



In un primo articolo avevo dato la parola ad alcuni figli del riformatore tedesco che ho conosciuto nei miei 15 anni di attività di insegnamento nella terra dov’è nata la riforma luterana, a pochi chilometri da Wittenberg, proprio perché volevo evitare contrapposizioni astratte tra Roma e Wittenberg, come quelle espresse nella Faz. Preferisco comunque, con il filosofo francese Rémi Brague, il termine “Riformazione” (Réformation) per distinguerlo da altre forme di riforma ecclesiale, come quella tridentina o del Vaticano II e in genere dal tema tipico della Chiesa tutta, “semper reformanda”. 



In questo articolo vorrei cercare di approfondire il tema della “Riformazione” in dialogo proprio con Rémi Brague e il suo importante libro Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (2005; 2016). Conoscendo la tesi del libro, già presentata nel sottotitolo (nel modello romano la salvezza dell’Europa) si potrebbe pensare ad una provocazione: come fare memoria dell’avvenimento che ha segnato la rottura con Roma, proponendo un “modello romano” di salvezza? Quanto scriverò è destinato a deludere tutti: i tradizionalisti “romani” vedranno in esso un’eccessiva cautela nel giudizio su Lutero, i luterani forse un tentativo di “restaurazione cattolica”. 



Che cosa ci propone Brague con il concetto di “romanità” o “secondarietà” (nell’accezione tecnica specificata dall’autore, e non usuale del termine)? “È solo con la digressione attraverso l’anteriore e l’estraneo che l’Europa accede a tutto ciò che le è proprio”. L’Europa non ha nulla di primario (potremmo anche dire: di essenziale) da difendere se non la sua capacità di integrare ciò che le è estraneo o anteriore. Fin dai tempi più antichi: Virgilio mette all’inizio della fondazione di Roma le gesta di uno straniero proveniente da una città dell’Asia minore! 

Per quanto riguarda il cristianesimo romano, Brague riassume così il suo pensiero: per lui non è “romana” un’idea di ordine sociale ed ecclesiale che temperi il “movimento cristiano originariamente rivoluzionario”. Cosa è in gioco allora con il pensiero della “romanità”? Risponde: “il cristianesimo unisce il divino e l’umano dove è facile distinguerli; distingue il divino e l’umano laddove è facile unirli”. Quanto alla prima proposizione, essa si spiega facilmente con il vangelo di Giovanni: il Verbo si è fatto carne. Quanto alla seconda, quella che opera la distinzione, essa significa che dall’incarnazione non consegue affatto una “teologia politica”, ma per l’appunto una distinzione tra politica e religione: date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che di Dio (Mt. 22,21). 

Nel fenomeno luterano il francese Brague vede una “deriva” (in contrasto con la distinzione di cui sopra), ma essa non è tipica del mondo riformato, in quanto essa accade anche nel mondo cattolico: “le autorità politiche possono a volta sottomettere le Chiese nazionali”. Per esempio laddove come in Germania queste ultime — come ha accennato Benedetto XVI nelle sue “Ultime conversazioni” — sono, in virtù di un concordato difficile da giustificare a livello teologico, troppo legate al potere statale e quindi a volte dipendenti dalle sue esigenze. Fin qui ho seguito abbastanza da vicino il pensatore francese. Ora procedo da solo, rinviando agli interventi di papa Benedetto XVI a Erfurt nel suo viaggio Germania (2011) e alla Dichiarazione congiunta tra luterani e cattolici sulla dottrina della giustificazione del 1999, riflettendo su ciò che io vedo essere la missione ecclesiale di Lutero: la memoria di un Dio misericordioso, che agisce per “sola gratia”. Ancor più del “sola scriptura”, che corre il rischio di ridurre in “lettera” l’avvenimento cristiano il quale annuncia l’Uomo-Dio Gesù come Logos (Verbum, Parola) e non come una sola parola. Vedo questo pericolo laddove la Sacra Scrittura viene letta in modo solo “letterale” in certi ambiti delle chiese libere evangeliche, che sospettano la tradizione e il ministero ecclesiale di tradire il detto originale della Bibbia (a riguardo dei sacramenti o del ruolo di Maria, eccetera). D’altro canto, quando la Sacra Scrittura viene meditata ecclesialmente e personalmente, trova nel lavoro di traduzione in tedesco fatto da Lutero un ottimo aiuto per crescere sempre di più in dialogo con la Parola di Dio, come ha sottolineato il papa nell’intervista citata. Rimane però il fatto che  il “sola gratia” è per così dire l’espressione teologica più genuina della “secondarietà” o “romanità”: l’uomo è e rimane in questo spirito della secondarietà nei confronti dell’agire di Dio: solo il Suo agire viene prima — “primerea”, direbbe papa Francesco.  

Lutero, poi, nella sua vita ha detto cose — per esempio in riferimento ai contadini tedeschi in rivolta sotto la guida di Thomas Münzer, o agli ebrei — realmente scandalose, non “romane”, perché troppo strettamente legate ad una certa politica di potere e giustificatorie così del potere regionale dei principi tedeschi o — nel caso delle critiche agli ebrei —semplicemente espressione di un giudizio partigiano. Le sue esternazioni così aspre contro il papa di allora andrebbero piuttosto comprese sotto il segno di un amore “romano” ferito. Un papa come Benedetto XVI o papa Francesco avrebbero evitato lo scisma? Domanda storicamente improponibile, ma teologicamente spontanea nell’osservatore attento di oggi; ebbene, alla luce del primato della grazia, per il modo in cui essi ne parlano, possiamo certamente dire di sì, perché il cuore della missione evangelica (si badi, non ancora “protestante”!) di Martin Luther è assolutamente romano. La conferma viene dal fatto che Roma e suoi santi — per citarne una, Teresa di Lisieux — non hanno avuto nessuna difficoltà a recepire il “sola gratia”, che in San Paolo, essendo “parola di Dio”, ha origine biblica, mentre in Agostino trova un’espressione letteraria e teologica all’altezza dei classici latini e in primo luogo di Cicerone. 

Ferdinand Ulrich, il pensatore forse più romano del mondo tedesco, con la sua riflessione ontologica sull’essere-come-dono, permette di approfondire il lato antropologico della “secondarietà”: l’essere stesso (e in esso, l’uomo) è immagine di quel Dio misericordioso che Lutero ha voluto, con uno squillo di tromba, annunciare. Vale la pena di osservare che senza il rinvio a questa dimensione ontologica, l’annuncio della misericordia potrebbe essere anche scambiato con una forma di sentimentalismo religioso (la “svista” che molti cattolici oggi commettono). Ma l’autentico pensiero cattolico (come quello di Guardini e Giussani) tutto questo lo sa e non avrebbe alcuna difficoltà a vedere in Wittenberg, ancora una volta, un’esperienza di fede autenticamente “romana”, perché in dialogo non con l’uomo come dovrebbe essere, ma con l’uomo così come è, nella situazione in cui si trova. Questo dialogo non genera “confusione”, come dice Gayer nella Faz, ma il desiderio di “avvicinarmi di più ai mie fratelli e alle mie sorelle… perché la distanza ci fa ammalare” (Papa Francesco alla Civiltà Cattolica).

 

(2 – fine)

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