“C’è stato un omicidio inconsueto, la nostra cultura siciliana l’ha sentito differente. Per questo l’agitazione e l’impazienza dei pubblici poteri, lo sgomento di molti sinceri cittadini”. Sono parole che il poeta Mario Luzi mette in bocca al vicario generale di Palermo nel suo prezioso dramma Fiore del dolore dedicato alla morte per mano della mafia di don Pino Puglisi.
Il 15 settembre 1993, a Brancaccio, era stato ucciso un parroco, che, per usare le parole del magistrato Giovanbattista Tona, non figurava neppure nell’elenco degli “antimafiosi ordinari”. Don Pino era un semplice educatore, un prete di periferia che si preoccupava di svegliare il desiderio di bene, giustizia e felicità nei ragazzini del suo quartiere.
Nel dialogo immaginario tra il vicario e gli impiegati della curia, Luzi fa dire al monsignore: “Non possiamo limitarci a intendere (questo fatto) nel suo brutale aspetto di assassinio. (…) Quest’episodio non è cronaca e noi siamo tenuti a leggerlo nel linguaggio alto, quello inesplicabile della profezia”.
Nella realtà, il vicario generale dell’arcidiocesi e vescovo ausiliare del cardinale Salvatore Pappalardo era monsignor Salvatore Gristina, all’epoca 47enne. Oggi mons. Gristina, 70 anni da poco compiuti, è arcivescovo di Catania e presidente della Conferenza episcopale siciliana. “Il martirio di padre Pino — conferma l’arcivescovo Gristina — è stato il fatto attraverso cui Dio ci ha restituito, in qualche modo, il nostro confratello. Come se volesse dirci: guardate il suo esempio, imparate dalla sua testimonianza. In effetti avevamo avuto fra noi don Pino, ma forse in pochi avevamo visto quello che il Signore stava operando in lui e attraverso di lui”.
In quali circostanze apprese la notizia della morte di don Pino Puglisi?
Stavo andando ad Aspra, nei pressi di Bagheria, per una celebrazione quando venni raggiunto da una telefonata del cardinale Pappalardo che mi disse: “E’ accaduto qualcosa di grave a don Pino”. Dopo un po’ il segretario del cardinale mi comunicò quello che era accaduto al nostro sacerdote. Andai subito all’ospedale Buccheri La Ferla, dove era stata portata la salma. Vedere don Pino lì, disteso, con un foro di pallottola in testa ben visibile è stato qualcosa di sconvolgente. Eppure quel volto conservava una serenità straordinaria, eloquente. Scambiai alcune parole col cardinale, che mi disse: “questa non è una morte qualsiasi, è stato ammazzato un sacerdote”.
Se lo aspettava? Don Pino non era un prete pubblicamente conosciuto per le sue battaglie antimafia…
È vero don Pino non era il tipico prete antimafia, non frequentava i cortei. Sta di fatto, però, che la mafia ha scelto lui. Forse perché scardinava la mentalità e gli interessi mafiosi. Don Pino era un educatore nato. Lavorava molto coi ragazzi sia in parrocchia sia a scuola come insegnante di religione.
Don Pino fu il primo parroco ucciso dalla mafia proprio per la sua attività pastorale. Cosa dava fastidio alla mafia?
Oggi, con le parole di Papa Francesco, si direbbe che don Pino era un sacerdote con uno straordinario odore delle sue pecore. Era pienamente inserito nel quartiere di Brancaccio e il suo lavoro fu notato dai boss, soprattutto perché egli cominciò a diventare punto di riferimento per tanti ragazzi del luogo e per tanti suoi alunni che venivano ad aiutarlo. Le sue battaglie per avere una scuola nel quartiere e le tante iniziative che creò davano fastidio perché di fatto levavano manovalanza alle cosche. Don Pino aveva un carisma educativo particolare, voleva che i ragazzi divenissero persone libere e questo a qualcuno non andava bene.
Qual è il suo ricordo personale di don Pino?
Ero più giovane di lui, ma lo conoscevo bene. Quando venni nominato parroco frequentavo gli incontri di preghiera che lui organizzava col suo Centro vocazionale. Anzi, lo chiamai a ripeterli nella mia parrocchia: fu un’esperienza straordinaria. Don Pino era una persona solare, sapeva raccontare barzellette in maniera insuperabile e aveva una capacità di osservazione straordinaria. La nostra conoscenza si intensificò quando diventai vicario generale della diocesi e, poi, vescovo ausiliare. A nome del cardinale fui io a comunicargli la nomina a parroco di Brancaccio e lui diede la massima disponibilità. Ricordo un episodio particolare. Un giorno accompagnai don Pino dal cardinale per chiedere un contributo finanziario che consentisse l’avvio dei lavori del Centro Padre Nostro a Brancaccio. Pappalardo fu generoso e, poi, in privato mi disse: questi sono soldi che fruttificheranno bene.
Cosa stava cambiando nei rapporti fra Chiesa e mafia?
Il cardinale era cosciente di svolgere un servizio per scuotere l’indifferenza della gente e delle istituzioni in un periodo in cui la mafia mostrava il suo volto stragista. In quelle circostanze il cardinale Pappalardo divenne la voce che svegliava le coscienze, alla luce della parola del Vangelo. E questo diede i suoi frutti. A un certo punto, prima della celebrazione di un importante processo, il cardinale indisse una veglia di preghiera in cattedrale. In quella circostanza Pappalardo disse che la Chiesa aveva svolto una meritoria opera di risveglio delle coscienze, ma era venuto il momento che fossero le persone e le istituzioni “risvegliate” a portare avanti la resistenza alla mafia. Purtroppo quelle parole non furono ben interpretate. Qualcuno disse ingiustamente che la Chiesa stava ritornando nella palude. Il cardinale si dispiacque e si indignò. La Chiesa aveva fatto la sua parte, ma la supplenza era finita. Ora toccava ad altri agire, ciascuno secondo le proprie specificità.
Nel maggio del 1993 — pochi mesi prima dell’uccisione di padre Puglisi — Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi aveva lanciato un anatema contro la mafia. Pensa che questo fatto possa aver scatenato nella mafia una volontà di risposta?
Le parole del Papa hanno rimesso al centro la missione della Chiesa. I successivi attentati di Firenze e Roma e l’uccisione di don Puglisi possono essere letti anche come un atto di stizza della mafia. Ma questo, evidentemente, non ha frenato l’impegno di Chiesa e istituzioni pubbliche.
Don Pino è stato proclamato beato, come martire, da Papa Benedetto XVI nel 2013.
Il martirio di don Pino, come quello, in tempi recenti, di padre Hamel a Rouen è un evento inspiegabile da un punto di vista puramente umano. E’ come il chicco di grano che cade a terra e poi, una volta che sembra finito, germoglia. Ma c’è bisogno di una chiave di interpretazione che tenga conto della parola del Vangelo e dell’esempio di Gesù.
Qual è il miracolo che chiederebbe oggi a don Pino per la Chiesa e la società siciliane?
Che ci aiuti ad essere una Chiesa in uscita, una Chiesa cosciente della propria identità e legata al suo fondatore, presente nell’ambiente e nel territorio. Che ci aiuti a scomodarci e a scommetterci con le circostanze che viviamo, che ci aiuti ad ascoltare di più la gente e a vivere la misericordia. Ai tempi di don Pino avevamo coniato un’espressione: una presenza per servire. C’è, per fortuna, un cammino che è stato fatto, ma deve essere più spedito. Il beato Puglisi, col suo esempio, ci ha preceduti su questo cammino. A volte mi interrogo sull’efficacia della nostra presenza come chiesa nella società. E ricordandomi del parroco di Brancaccio, penso che il Signore potenzia in modo straordinario la presenza di persone che Lui sceglie.
Pensa ogni tanto a quel suo confratello ucciso dalla mafia e oggi venerato sugli altari?
Spesso. Quando ripasso il “film” della mia ordinazione episcopale, avvenuta il 3 ottobre del 1992, vedo tre facce: la mia mamma, il cardinale Pappalardo e don Pino e chiedo loro di aiutarmi nel mio servizio alla Chiesa”.