La chiusura di una scuola materna gestita da suore o di un convento di frati in uno dei tanti piccoli comuni del nostro Paese non fa più notizia. La diminuzione delle vocazioni che ne è la causa prima sembra inarrestabile e, quindi, un’oculata amministrazione da parte degli ordini religiosi ne impone quasi sempre la chiusura. Così è accaduto anche a Gela, in provincia di Caltanissetta, ove gli ultimi tre Padri Agostiniani, presenti in città dal 1439, hanno lasciato il convento, che ora sarà retto da un sacerdote diocesano, don Pasqualino Di Dio. La decisone ha certamente provocato disappunto nei tanti fedeli che in questi anni hanno trovato negli Agostiniani un punto di riferimento spirituale e sociale per i tanti servizi che hanno reso a tutti gli abitanti. Sembrerebbe una sconfitta. Ma proprio per questo ne abbiamo voluto parlare con due protagonisti: padre Salvatore Capraro, che è stato l’ultimo a lasciare il convento e subito dopo è stato trasferito a Palermo, e padre Giuseppe Turco, più volte eletto Provinciale degli Agostiniani e profondo conoscitore della comunità gelese per avervi operato negli anni scorsi.



Dunque, è stata una sconfitta?

Assolutamente no — risponde padre Turco — , perché innanzitutto nei piani di Dio non esiste la sconfitta. Questo termine appartiene agli uomini. E poi perché anche in questa vicenda bisogna andare oltre le apparenze e cogliere i semi di novità che vi sono già.

E allora cominciamo, come dice Lei, dal piano di Dio e dal piano degli uomini.



Se si seguisse una valutazione meramente umana, quella che normalmente viene riassunta nei termini di “costi e benefici”, applicando cioè rigide logiche organizzative, si dovrebbe concludere che forse la scelta era inevitabile. Col senno di poi forse si poteva soprassedere, forse si poteva ridimensionare la portata della decisione; ma ormai questi ragionamenti valgono per la cronaca e forse un giorno per la storia, ma non per quello che ho chiamato il piano di Dio.

E qual è questo piano di Dio?

Non lo conosciamo come una evidenza, ma esiste e in questo piano c’è un disegno buono che passa anche per quella che noi possiamo definire una sconfitta. Rimane il fatto che ciò che in questi secoli gli Agostiniani hanno seminato a Gela continua a produrre frutti e questi frutti sono oggi affidati alle famiglie che abbiamo incontrato e seguito in questi anni e che continuano ancora una testimonianza cristiana all’interno del carisma agostiniano.



A quale realtà fa riferimento?

Per esempio alla bella realtà del Terz’Ordine Agostiniano, una presenza laicale di famiglie che seguono gli stessi principi dell’Ordine Agostiniano, quelli riportati negli Atti degli Apostoli (2, 42-48) presente a Gela e in altri comuni della Sicilia, anche ove non esistono nostri conventi.

Questo secondo lei cosa significa? 

Indica che a fronte, magari, ma non è esattamente così, di una diminuzione di vocazioni, vi è un rifiorire di responsabilità dei laici in tutta la Chiesa che passa per le vie più impensabili, per noi uomini, ma non per Dio. In questa fase storica, almeno in Italia, i gruppi laicali che sono nati dalla testimonianza e dal carisma di noi sacerdoti Agostiniani si sta diffondendo e costituisce motivo di grande speranza per tutti”.

 

E sulla diminuzione delle vocazioni, cosa può dire?

Anche su questo aspetto bisogna saper andare oltre le apparenze. I numeri sono importanti agli occhi degli uomini, ma non a quelli di Dio. Le vocazioni sono certamente diminuite, ma in raffronto a cosa? E’ giusto paragonarle a quelle dei secoli scorsi? Per esempio quelle degli Agostiniani in tutto il mondo tendono ad aumentare. Certo ci sono ordini religiosi che, come sempre nella storia, sono in maggiore espansione rispetto ad altri. Questo forse deve farci di più interrogare su come attuare oggi il nostro carisma. Il paragone è un’attività degli uomini; Dio non perde tempo con i numeri. E poi va detto che anche in Italia abbiamo novizi e seminaristi nei nostri centri sparsi soprattutto in Italia centrale. E a proposito di statistiche, molti di questi sono meridionali.

 

Torniamo a Gela. Cosa rimarrà della vostra presenza?

La nostra presenza a Gela — interviene padre Capraro — non era legata alla gestione di una parrocchia, rendevamo un puro servizio di testimonianza e carità cristiana. Il nostro convento era luogo di incontro per le famiglie, struttura di accoglienza per ospiti e visitatori, centro di diffusione di attività caritatevoli e missionarie. Gran parte di tutto ciò rimane e sarà portato avanti da don Pasqualino Di Dio, nulla di tutto ciò andrà perduto.

 

Le attività più squisitamente spirituali?

Io personalmente — riprende padre Turco — continuerò a seguire le famiglie del Terz’ordine che ho già seguito e conosciuto in questi anni. Intravedo in questa responsabilità una sorta quasi di mutamento genetico del nostro carisma. La Chiesa e papa Francesco chiedono più responsabilità e più missionarietà ai laici. Il richiamo ad andare nelle periferie vuol dire per noi, per me che a settant’anni mi trovo in questo momento a Palermo, seguire lo Spirito in direzioni che forse non immagino. Anche sant’Agostino si è comportato così. Quindi nessuna paura e nessun sentimento di sconfitta, anzi. Bisogna guardare lontano e noi abbiamo tanto da imparare per esempio dalle nostre missioni lontane dall’Europa.

 

A cosa si riferisce?

Alle nostre tante case e conventi sparsi in tutti i continenti, soprattutto in America latina, ove c’è un rifiorire non solo di impegno, ma anche di vocazioni. Anzi voglio raccontare una vicenda ancora in corso.

 

Prego. 

Un nostro confratello di Gela, padre Giovanni Salerno, in Perù da molti anni, pian piano ha dato luogo ad una molteplice attività missionaria e sociale fino al punto da mettere in opera una sorta di piccola città della solidarietà nelle periferie di Cuzco, “La città dei ragazzi”, con l’aiuto del suo gruppo gruppo e di oltre 12 famiglie missionarie e provenienti dall’America Latina, dall’America del Nord e dall’Europa. E’ riuscito a creare un movimento di missionari chiamato Servi dei Poveri del Terzo Mondo. Assiste migliaia di persone. Padre Giovanni adesso, lasciato il Perù, a settantott’anni suonati, cerca nuove vie per aiutare i più poveri e si è trasferito a Cuba perché sente di essere chiamato a testimoniare il carisma proprio in quell’isola.