Tra i personaggi che gremiscono cerchi e cieli della Divina Commedia, assume un’evidenza particolare Ulisse, che si profila come l’alter ego di Dante, il suo lato nascosto, il suo doppio. Tant’è: una pubblicazione recente del Centro Pio Rajna — gli atti delle celebrazioni in Senato, del Forum e del Convegno internazionale di Roma, in occasione dei 750 anni dalla nascita del poeta — presenta come “proemio” una relazione di Luciano Canfora (“Un profilo di Dante”) dedicata al canto XXVI dell’Inferno. Il canto di Ulisse, appunto; per usare l’antico sistema di etichette che ribattezzava i canti danteschi a partire dai rispettivi protagonisti. Ed esce ora per il Mulino il volume di Piero Boitani Il grande racconto di Ulisse, una rassegna delle incarnazioni innumerevoli del versatile eroe lungo la cultura occidentale antica e moderna, tra letteratura, filosofia, scienza cinema.
L’Ulisse dantesco è uno snodo decisivo di questa secolare traiettoria. Ma in quale chiave leggerlo senza forzare il testo, senza all’opposto ridurlo a rigido fossile, privo di suggestione e di incidenza?
L’approccio interpretativo più diffuso indugia a sondare i rapporti tra l’episodio della Divina Commedia e la grande costellazione mitologica che precede, con le sue linee principali e secondarie, coi suoi rami in vista e in ombra: ci sono affinità forti tra il poema medievale e la tradizione (naturalmente quella latina, che Dante poteva accostare, mentre gli rimaneva indisponibile Omero, muto per tutti i medievali, data l’eclissi della conoscenza del greco). Senza Virgilio, Stazio, Ovidio, Inferno XXVI non ci sarebbe. Ma rispetto alla tradizione si registrano anche irrecusabili discordanze; che non vanno certo enfatizzate, come se l’autore della Divina Commedia si fosse limitato a pagare ai classici un modico obolo, per poterli archiviare e dimenticare, ma nemmeno vanno perse di vista, nella pretesa certezza che la scrittura creativa sia in realtà replica del già detto, con qualche ritocco secondario.
La curvatura che Inferno XXVI impone al mito manifesta istanze e preoccupazioni tipiche del tempo di Dante. Ne hanno preso atto quei lettori impegnati a valorizzare le sporgenze filosofiche di questo canto, dove risuonano accenti propri del dibattito dottrinale del Duecento, e si sente Aristotele, si sentono le controversie vivacissime che si erano accese sui suoi assunti e teoremi nella medievale Sorbona, con echi presso le altre università europee, per esempio Bologna. Esiste veramente un nesso tra conoscenza e felicità? All’impeto della ragione umana sono imposti dei limiti invalicabili? Una frangia dell’aristotelismo duecentesco, la sua audace ala sinistra, esaltava la sapienza puramente umana quale vettore autosufficiente di realizzazione e perciò, come allora si diceva, di beatitudine; una beatitudine di questa vita. Punte sul vivo, le autorità ecclesiastiche nutrivano forti apprensioni; e nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier, sentita una commissione di teologi, aveva condannato, senza mezzi termini, simili oltranze.
Inferno XXVI è allora la metafora di un dramma della filosofia? Senso letterale, l’avventura di Ulisse e dei suoi compagni, senso allegorico il percorso di ideologi arditi, troppo arditi, su cui scende infine il turbine della dovuta sanzione… Leggere tra le righe è inevitabile, specie se in gioco è un poeta perfettamente a suo agio fra i meccanismi dell’allegoria.
Eppure, è principio fondamentale di ogni corretta allegoresi partire dalla superficie del testo, dalla sua aperta evidenza, come Dante stesso, nel Convivio, ribadisce. Non possiamo dimenticare troppo presto che quello di Ulisse è un viaggio per mare.
Il basso medioevo vede l’incrementarsi dei viaggi; per motivi religiosi (le Crociate, le ambascerie della Santa Sede presso i Tartari), per ragioni mercantili (il commercio sempre più attivo con l’Oriente), per una spinta insofferente di perimetri angusti. L’Italia è all’avanguardia di questo processo, con le sue repubbliche marinare, con i suoi esploratori pronti a lunghi soggiorni in contrade esotiche, come il veneziano Marco Polo che, tornato nella penisola, affida alle pagine del Milione (1298) i fotogrammi dei suoi ventisei anni presso il Kubilai Khan. Da parte sua, Dante non nomina mai Marco Polo. Doveva essere al corrente, però, di un’altra impresa, quella tentata, nel 1291, da due fratelli genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi.
Il progressivo crollo delle piazzeforti cristiane in Palestina, culminato con l’assedio e la caduta di San Giovanni d’Acri, nella primavera del 1291, aveva reso problematici gli scambi commerciali con il Levante. Si era posto insomma fin da allora l’imperativo di nuove vie di comunicazione, magari meno dirette: buscar el levante por el ponientecominciava ad apparire una prospettiva vantaggiosa, la soluzione obbligata per uno scosceso ostacolo. Così i fratelli Vivaldi, grazie alla sovvenzione dell’armatore Tedisio Doria, armano due galee, assoldano i rispettivi equipaggi, non senza includere due frati minori (e non per caso, l’Ordine francescano era dalle sue origini e per natura itinerante) e, compiuti i preparativi, salpano da Genova dirigendosi verso lo stretto di Gibilterra. Obiettivo della spedizione: circumnavigare l’Africa, in modo da raggiungere le Indie via mare. Il tratto mediterraneo della navigazione non procura difficoltà; le colonne d’Ercole vengono superate; e le due galee svoltano felicemente verso sud, prendendo ad assecondare la costa africana. A Genova giunge notizia del loro passaggio presso la regione del Marocco meridionale, tra Agadir e il capo Non. L’ultima notizia. Non c’è, in seguito, nessun altro segnale: le due imbarcazioni escono, per così dire, dai radar, senza far pervenire un allarme, un appello, un concitato esseoesse, un messaggio in una bottiglia. Che sia accaduta una disgrazia è certo; dove e in quali circostanze non è dato sapere.
Studiosi autorevoli come Bruno Nardi e Ignazio Baldelli hanno indicato in questa tragedia del mare la premessa decisiva di Inferno XXVI. È suggerimento da valorizzare: la spedizione dei Vivaldi e il suo fallimento dovevano aver suscitato un’impressione enorme, specie in quell’arco tirrenico che comprendeva, con la Liguria, la contigua Toscana, sede di una repubblica marinara come Pisa, in acre concorrenza con Genova, ma proprio per questo sensibilissima alle vicissitudini della vicina rivale.
Ovviamente, i problemi di interpretazione, in un primo momento, si accrescono. Perché Dante non ha cooptato direttamente i fratelli Vivaldi e si è rivolto al mito? La direzione usuale della poesia dantesca punta al contemporaneo, colto in presa diretta, e proprio i canti di Malebolge sono rigurgitanti di cronaca, di personaggi maggiori e minori del XIII secolo. E ancora: come conciliare l’eventuale antefatto mercantile con il linguaggio aristotelico messo in bocca a Ulisse, con quel suo “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza” che sembra uscire dalle pagine di Aristotele o quanto meno di un aristotelico del Duecento, come lo era in definitiva lo stesso Dante, che nel Convivio aveva usato espressioni simili?
Non è vietato pensare che Dante, registrando una tendenza della propria epoca, lo slancio di quei viaggi che dilatavano confini rigidi, sino a incrinare una visione dello spazio come grandezza nota e delimitata, abbia tentato di cogliere tutto lo spessore di un infaticabile dinamismo. Certo, il viaggio orizzontale di Ulisse viene proposto in netta opposizione a quello del protagonista della Commedia, il quale si muove, da parte sua, costantemente sulla verticale, puntando dapprima verso l’abisso dell’umiltà e quindi verso le altezze della trascendenza. Eppure la riva a cui Ulisse sta per approdare è quella dell’isola del Purgatorio: una tappa fondamentale dell’itinerario dantesco. Si aggiunga che il tragitto di Ulisse è lo stesso delle anime destinate al secondo regno, che muovono dal Tevere sul vasello snelletto dell’angelo nocchiero. Un vivo come Dante può accostare l’escatologia solo sprofondando nella mortificazione; le anime dirette alla montagna purgatoriale ricalcano la scia di Ulisse, con ben altro esito, sicuramente, ma la rotta è quella.
Se è così, il viaggio per mare verso ovest acquista un’implicazione cospicua, e già nella sua facies letterale, che non è la mera scorza di un significato riposto di altro genere, ma possiede una sua consistenza. Dante recepisce la mobilità degli esploratori come manifestazione di un desiderio di infinito, di una tensione verso l’assoluto: il congedo dall’assetto stanziale (la tranquillità presso Circe o presso Penelope) e lo scavalcamento di ogni frontiera acquisita (con dissolvenza del non plus ultra nell’opposto imperativo “più in là”) nascono a suo avviso da una spinta del genere, giocando una posta altissima. Per avvalorare questo giudizio, per rendere evidente il nocciolo della questione, il poeta defalca la motivazione utilitaria dei viaggi e la sostituisce con le formulazioni di Aristotele sulla vibrazione conoscitiva presente in tutti gli uomini.
Si spiega allora lo stesso ricorso al mito, l’opzione per un eroe primordiale e il sipario calato sui due navigatori genovesi: la trasposizione mitica permette la rasura totale della componente economicistica e si sposa senza problemi con la sublimità degli ideali asseriti, assestandoli sul piano universale dell’archetipo. Ma il mito è quello di Ulisse: un lupo di mare pronto a tutte le partenze, tanto meglio se protagonista di viaggi transoceanici, come la tradizione attestava.
L’inquadratura appena esposta converge forse su una piena legittimazione del personaggio dantesco, o quanto meno del suo ultimo viaggio? Niente affatto. Sarebbe, del resto, un’indebita pressione sul testo: i “riguardi” posti da Ercole “acciò che l’uom più oltre non si metta” e la tempesta finale con fulmineo, catastrofico naufragio tolgono ogni dubbio sull’infrazione che Ulisse ha consumato. Ma Dante sapeva bene, con Tommaso d’Aquino, che l’uomo soffre una sproporzione interna, un divario tra il desiderio e la capacità; la quale ha una gittata nettamente inferiore, e non può espugnare le realtà ultime, quella plaga del soprannaturale (l’isola del Purgatorio, per Dante, appartiene all’aldilà) che pure è approdo necessario all’umano compimento. Tra il bisogno autentico e la pretesa di soddisfarlo da sé si consuma il destino di Ulisse. Rendere disponibile, in futuro, la sua rotta sarà affare della grazia.