Quando, nel 2014, Sophie Hannah pubblicò, sempre per Mondadori, Tre stanze per un delitto, che riportava in azione Hercule Poirot, la creazione letteraria più fortunata di Agatha Christie, molti storsero il naso. Ma Sophie Hannah, pubblicata in venti paesi, è una delle migliori autrici di crime novel del panorama contemporaneo, vincitrice, con The Carrier, del National Book Awards Crime Thriller of the Year: è una scrittrice esperta, che già con Tre stanze per un delitto aveva costruito un enigma sottile e ben congegnato, raccontato con atmosfere e movenze che non sarebbero affatto dispiaciute a Dame Agatha, e in cui Poirot era in perfetta forma. 



Anche qui, ne La cassa aperta, in luogo del Capitano Hastings (che a un certo punto la Christie, esasperata dalla mediocrità del suo stesso personaggio, spedì in Argentina), Poirot trova una spalla formidabile nel giovane ispettore Edward Catchpool. Squadra che vince non si cambia: dunque, Poirot e Catchpool sono in trasferta in Irlanda, nella fastosa dimora di Lillieoak, ospiti di Lady Athelinda Playford. L’anfitriona, nobildonna e giallista, è diventata celebre con una serie di romanzi gialli per bambini, con protagonista la vivace Shrimp Seldon e la sua banda di amichetti. Quasi a riproporre la situazione di partenza di Dieci piccoli indiani, nella dimora si trovano dieci personaggi eterogenei: Poirot e Catchpool; i figli di Lady Athelinda: la sarcastica Claudia e l’inetto Lord Harry, appassionato di tassidermia; la moglie di Harry, la querula Dorothy; il patologo forense Randall Kimpton, fidanzato di Claudia; due avvocati, Gathercole, cresciuto a pane e libri di lady Athelinda, e Rolfe, specializzati in testamenti. Aggiungiamo il segretario di Lady Athelinda, Joseph Scotcher, gravemente malato e cui resta poco da vivere, e la sua infermiera Sophie. Queste dieci persone hanno qualcosa in comune fra di loro: la morte, con cui tutti hanno a che fare, per motivi personali o professionali.



Nelle prime pagine, Lady Playford palesa a Gathercole l’intenzione di modificare il testamento, nominando erede universale il suo segretario. Il proposito, ripetuto a cena, di fronte a tutti, crea un comprensibile subbuglio: perché diseredare i figli, già a suo tempo penalizzati dal testamento del defunto Lord Playford, lasciando tutto a chi ha i giorni contati? La testarda nobildonna è convinta che lo spirito domini sulla materia, e il fattore psicologico influenzi quello fisico: dunque, la prospettiva di ereditare una fortuna potrebbe avere un effetto benefico sulla fragile complessione di Scotcher. E i guai non sono finiti: la notte, Rolfe inizia a lamentarsi, temendo di essere avvelenato e vaneggiando di una conversazione ascoltata di soppiatto, in cui due persone discutevano a proposito di un avvelenamento e di una “cassa aperta”. 



Il falso allarme sta quasi rientrando, quando, al pianoterra, ecco che Scotcher viene ucciso, e Sophie, la sua promessa sposa nonché infermiera, accusa Claudia, che si sarebbe fatta sorprendere mentre brandiva — senza guanti! — la pesante mazza con cui è stata spaccata la testa al segretario. Claudia nega, e nell’aria riecheggiano le ultime parole che la testimone afferma di aver sentito: “Avrebbe dovuto farlo Iris”. Date tali premesse, come in una specie di Cluedo, ecco servito un enigma in cui dobbiamo scoprire, al di là di ogni apparenza, colpevole e movente. Le trecento e passa pagine del romanzo volano via velocemente, troppo velocemente, con i loro dialoghi à la Christie, curati e forbiti, come si conviene a personaggi di un certo livello sociale: del resto, nel giallo all’inglese, la working class non compare quasi mai, se non per brevi note di colore. Ne deriva una sorta di ronron rassicurante e con un che di cerimonioso, che ci ricorda le migliori prove di Poirot negli anni Trenta e Quaranta, da Tredici a Tavola a Due mesi dopo sino all’improbabile, ma fascinoso, Carte in tavola

La cassa aperta è caldamente raccomandato agli estimatori del vintage: sarebbe infatti impensabile, nei nostri tempi iper-tecnologici che hanno ormai mitizzato la prova del dna, non appurare per prima cosa a se ci siano impronte digitali sull’arma del delitto e a chi appartengano. Il romanzo di Sophie Hannah, infatti, vuole proprio contrapporre il metodo di Poirot, basato sulla strenua fiducia nell’analisi psicologica e nel lavorìo delle “celluline grigie”, e la necessità delle evidenze concrete, quelle, per intenderci, in cui crede strenuamente Randall Kimpton, che spiega, per esempio, come sia proprio questa necessità ad averlo persuaso ad abbandonare, nonostante la sua grande passione per Shakespeare — e, nello specifico, per il Re Giovanni — la letteratura in favore della medicina: i letterati, secondo lui, discutono ipotesi e lavorano in base a suggestioni e convincimenti personali; i medici, invece, si affidano alle evidenze scientifiche.  

Non vi voglio togliere la sorpresa e dunque non racconto altro: concludo dicendo che, se verrete a capo dell’enigma, raccogliendo i minuscoli e quasi impercettibili indizi disseminati, proprio alla maniera di Agatha Christie, come molliche lasciate cadere da un astuto Pollicino, potrete vantarvi del titolo di “solutori esperti”.